In un recente editoriale qui su Mediacritica, Roy Menarini nota con rammarico che il libro di cinema suscita sempre meno interesse, e non solo per le case editrici. Sono gli stessi potenziali lettori a non esserne attratti, in controtendenza rispetto alla qualità delle recenti pubblicazioni che dimostrano una certa vivacità della critica e della ricerca.
A questo proposito mi preme segnalare un libro di recentissima uscita, ad opera di Christian Uva – ricercatore all’Università di Roma Tre: Sergio Leone. Il cinema come favola politica (edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, pp. 220, euro 12,90). Si tratta di uno studio che tiene conto della dimensione ambivalente della poetica del cineasta romano, costantemente in bilico tra mestiere e autorialità, ma soprattutto restio a qualsivoglia classificazione sul piano ideologico.
Figlio d’arte – il padre Roberto Roberti fu un prolifico regista all’epoca del muto – Sergio Leone è noto per aver reinventato i canoni del cinema di genere passando dai pepla, al western, al kolossal. E’ proprio tale reinvenzione a costituire il principale snodo politico del cinema leoniano, fautore di “…uno sguardo profondamente critico tanto nella materia raccontata quanto nei riguardi degli stessi dispositivi linguistici e drammaturgici che ne presiedono la messa in forma”.
Sergio Leone, dichiaratamente alieno dalla militanza che contraddistingue i colleghi coevi, manifesta il proprio pensiero in virtù di quell’individualismo che emerge nei personaggi dei suoi film. Esattamente come il Sean di Giù la testa che si libera dell’ingombro ideologico di Bakunin, il personaggio leoniano è un libertario che si contrappone ad ogni partigianeria, un uomo “…che ha bandito la società da se stesso”. D’altra parte non si possono non notare, all’interno delle tematiche affrontate nei film in esame, evidenti riferimenti ad un immaginario rivoluzionario, determinato da una spiccata simpatia per “i dannati della terra”, incarnazioni evidenti di un populismo di stampo gramsciano. E’ proprio questa ambivalenza – distante dal manicheismo del western Zapata di Corbucci, Sollima e Damiani – a determinare la peculiarità di un autore difficilmente etichettabile.
Ma è anche la dimensione stilistica a conferire, secondo Uva, la particolare consistenza politica del cinema di Leone. L’afflato mitopoietico delle produzioni del western classico, difatti, ha generato nel regista una cultura della citazione che ne ha comportato la consistenza della propria poetica. Il cinema leoniano, in buona sostanza, risemantizza i canoni del cinema di genere hollywoodiano ricollocandolo in una dimensione favolistica e post-storica. E’ tale dimensione ad infondere nel cineasta l’innata avversione verso le grandi narrazioni ideologiche, facendone, per dirla con Baudrillard, “il primo regista postmoderno”.