Scienza e umanesimo i protagonisti assoluti del nuovo film del messicano Alfonso Cuaròn; l’una al servizio dell’altro in un binomio inscindibile quanto vincente. È la storia di un viaggio accidentale tra basi spaziali in totale assenza di gravità; la vulnerabilità dell’uomo è più evidente che mai, in una sfida continua tra vita e morte, tra istinto di sopravvivenza e desiderio di abbandono di fronte all’immensa grandezza e potenza dell’universo.
La dottoressa Ryan Stone, magistralmente interpretata da una radiosa Sandra Bullock da Oscar, affiancata in itinere dal comandante della missione Matt Kowalski del bravo Clooney, in seguito ad una pioggia di detriti che distrugge lo shuttle dove stava lavorando, si ritrova ad essere l’unica superstite della catastrofe e a dover combattere contro una serie di pericolose circostanze che ostacolano il suo ritorno sulla Terra. Dal punto di vista dell’intreccio ci troviamo di fronte al tipico viaggio di formazione in cui il susseguirsi degli eventi segna una progressiva crescita del protagonista; tuttavia la forza dell’immagine è il differenziale. Essa ottenebra il prevedibile, conferisce credibilità e suggestiona irrevocabilmente lo spettatore, trascinandolo in una dimensione onirica, in un continuo avvicendarsi di scientifico e metafisico. Grazie anche al supporto del tridimensionale, tecnologia ormai non più così nuova, eppure raramente usata in maniera tanto artistica quanto in Gravity, si è partecipi con Ryan di una sublime visione dell’universo, nonché della nostra più profonda umana interiorità. Risuonano costanti gli echi di matrice romantica; quale miglior rappresentazione del sentimento del sublime, che provoca in noi sgomento, ma allo stesso tempo anche attrazione? Parafrasando liberamente il Qoelet, Dio mise il desiderio dell’eterno nel cuore dell’uomo; tale anelito nei confronti dell’infinito, proprio in quanto insito nella nostra stessa natura, è sempre così forte in noi uomini di ogni tempo, condannati quindi ad aspirare all’irraggiungibile, vivendo entro i limiti di un mondo finito. Ebbene, nel film di Cuaròn si ha l’impressione di avvertire almeno per un attimo quella dimensione ulteriore, quell’altrove che ci sfugge, sospesi in uno spazio che è davvero al confine tra ciò che scientificamente conosciamo e ciò che ci trascende. Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me, parola di Kant. Le stelle in Gravity sono tutte intorno, eppure il concetto non cambia. È costante la consapevolezza del rigido meccanicismo che regola le leggi della fisica e quella dell’immensità del tutto rispetto all’umana piccolezza; a questo però si affianca la percezione di essere, pur nella nostra insignificanza, portatori di una libertà che regola la nostra morale e ci fa sentire grandi in una realtà altra rispetto a quella conoscibile teoreticamente. Ecco allora che una passeggiata spaziale che ha del surreale, seppur effettivamente verosimile, intingendosi di spiritualità, ci offre l’occasione di compiere un iter nei meandri più profondi del nostro animo, rimanendo seduti in poltrona. Si può chiedere forse di più all’immaginifica settima arte? Il tutto si compie, dopo novanta minuti, con una scena mozzafiato, apice della climax ascendente che ci tiene incollati allo schermo per tutto lo svolgersi del film. La bellezza della Bullock è commovente, in questa indimenticabile sequenza che sembra vedere nell’acqua l’archè di tutte le cose.
Gravity [id., USA/Gran Bretagna 2013] REGIA Alfonso Cuaròn.
CAST Sandra Bullock, George Clooney, Ed Harris.
SCENEGGIATURA Alfonso Cuaròn, Jonas Cuaròn. FOTOGRAFIA Emmanuel Lubezki, Michael Seresin. MUSICHE Steven Price.
Fantascienza/Thriller, durata 90 minuti.