FilmMaker Festival, 29 novembre-8 dicembre 2013, Milano
Il sottile confine tra vivere e filmare
Uno degli aspetti più interessanti della ricchissima edizione 2013 del Milano FilmMaker si è rivelato la retrospettiva dedicata al documentarista americano Ross McElwee, la cui opera, poco nota in Italia, è stata qui restituita nella sua integrità.
La parola chiave per approcciare il lavoro di McElwee, attualissima peraltro rispetto alle ricerche del cinema contemporaneo, è footage: ciascuno dei documentari che compongono la filmografia dell’autore è fondato sull’idea di catturare il materiale filmico con un approccio il più diretto possibile alla vita quotidiana, colmando la distanza che separa il documentario dall’home movie e muovendosi in direzione del diario, del ritratto, dove l’immagine non solo restituisce un frammento della realtà, ma si carica, con malinconica intensità, di ulteriori significati esistenziali e metacinematografici. Il valore indiscutibile dei risultati ha a che vedere con la forza del punto di vista dell’autore, che mettendosi al centro del proprio lavoro – non solo McElwee è sempre presente dentro al film, ma spesso è il solo a filmare, in una sorta di one-man crew – parte costantemente dalla propria quotidianità, e in particolare dal proprio mondo familiare, per arrivare a restituire uno sguardo più aperto sulla società americana e sulla condizione umana tout court. L’esito di questo approccio, non c’è dubbio alcuno, è la creazione di un cinema paradigmatico e insieme inclassificabile, un’autobiografia trasfigurata che guarda alla storia e alla società attraverso una lente personalissima, partendo dal proprio luogo di origine, il North Carolina, e cercando di allargare la prospettiva con lo spirito, spesso ironico, di un loser votato alla ricerca di significati intimi e profondi sull’identità familiare e la fugacità del tempo e della memoria. Di fronte a questa sfida, appare evidente la natura sottilissima del confine tra vita e cinema, tra filmare per vivere e vivere per filmare, arrivando al paradosso di filmare la propria vita – parole di McElwee – “per avere una vita da filmare”. L’utilizzo e la disposizione dell’esistenza a fini cinematografici resterà probabilmente la cifra cardine dei film di McElwee, come già appariva evidente in Sherman’s March, opera del 1986: il film, costruito a vari livelli, diventa presto un ritratto intimo dell’autore sul proprio rapporto con le donne e il sesso, con vere e proprie scene di intimità e confessioni notturne in cui la macchina da presa sembra un tutt’uno con il corpo e il pensiero di McElwee. Anche questo elemento perturbante – la natura deviante della macchina da presa come filtro forzato alla vita – conferma la generosità e il coraggio del cinema di McElwee, ponendo al centro il ripiegamento del soggetto su se stesso, e la crisi della dimensione collettiva del vivere.