Dall’ingresso della televisione nelle case degli italiani, nel lontano ’54, si sono alternati periodi in cui l’autorevolezza del mezzo informativo e dei suoi addetti ai lavori ha mutato di valore e considerazione presso il grande pubblico.
Durante il boom economico la carta stampata aveva perso la funzione guida ricoperta nel dopoguerra e si rivolgeva ormai a un target di nicchia, sia per tematiche che per linguaggio, mentre i tg godevano di una cieca fiducia, garanti dell’unità nazionale, ricostruttori di un immaginario collettivo distrutto dalle bombe e catalizzatori di un’attenzione spettacolare culminata nelle pallottole di piombo, nelle drammatiche fasi del sequestro Moro e nell’incidente di Vermicino, che incollarono in diretta milioni di spettatori. Non vi saranno competitor fino alla tv privata di Silvio Berlusconi, che aprirà le frontiere ad uno stravolgimento popular dell’assetto della cronaca scritta, con fenomeni quali il “mielismo” (dal nome del direttore Paolo Mieli), introdotto a Il Corriere della sera per ringiovanire la “Vecchia signora” e metterle su una minigonna. Da lì difatti sarà una corsa alla conquista del lettore medio, coniugando alto e basso, e avvicinandosi agli aspetti più commerciali dell’Italia stravolta dalla pubblicità, che potevano essere la rubrica di critica al piccolo schermo firmata da Aldo Grasso o le immagini di formose donnine, ancor meno vestite delle cameriere di Drive in, pubblicate indistintamente da partner e avversari ideologici per aumentare la tiratura e sanare i bilanci.
Oggi è tutto spalmato trasversalmente, i contenuti si diffondono alla velocità di un click e ogni telegiornale/rivista/testata on line ha uno spazio che accontenti gli interessi di chiunque. Ciò che però viene da chiedersi è chi sia oggi il giornalista. Se come dimostra il caso Innocenzi bocciata all’esame di Stato, non sia più necessario appartenere a un albo per essere degli opinion maker, o se persino il giudizio del blogger quindicenne può ritenersi autorevole. In un’era retta sul malcontento, in cui le notizie si diramano su Twitter con più efficacia di un’agenzia di stampa e in cui si comunica direttamente al giornalista di cui si è follower, che a sua volta ruba pareri ai following per guadagnarsi il pane quando è a corto di idee, sono i cittadini i veri diffusori dell’informazione. Con il passaparola virtuale un inganno è presto svelato, colui che sbaglia subito crocifisso, il commento di un rappresentate delle istituzioni ridotto a oggetto di gara per battute spinoziane. Manicheisticamente il Citizen Journalism ha combattuto il concetto di caste per assegnare il potere a una nuova, la Casta del Popolo, che fa sì che l’intervista al pensionato venda più di quella ad una star, che un talk show non possa andare in onda senza la presenza di un operaio cassaintegrato, e che come il fenomeno Zalone manifesta, ora come mai prima d’ora muove anche le fila del cinema. Ma quant’è voluta questa primavera araba? Resta da capire se l’autogestione sia frutto di una seria presa di coscienza o se si tratti di un’anarchica fase di transizione, che piange la poltrona vuota e attende l’arrivo del prossimo leader.