SPECIALE ADOLESCENTI RIBELLI
Storia di una pistola
«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.»
Quando, nel 1995, Mathieu Kassovitz vinse a Cannes il premio per la Miglior Regia, il pubblico si spaccò tra entusiasti e oppositori. Inevitabile per un film come L’odio, che elegge il contrasto a propria cellula endemica. Dal titolo all’incipit – con le immagini di archivio degli scontri tra la polizia e i ragazzi della banlieue – fino alla doppia pistola puntata nel finale, L’odio scorre nel dualismo inesorabile del conflitto quotidiano. All’indomani del pestaggio di un ragazzo da parte di un poliziotto (ispirato a un fatto di cronaca vera) Vinz, Hubért e Saïd affrontano le ostilità che attanagliano la periferia. Vinz, spaccone e velleitario, roso dalla rabbia e dalla voglia di riscatto, attratto dal mito di una violenza estetizzata come quella che vede nei film. Hubért, mite e riflessivo, sempre più insofferente verso la realtà del ghetto e le sue insanabili contraddizioni. Saïd, infine, pacato testimone, il cui primo piano con controcampo della polizia apre e chiude la vicenda. Un ebreo, un africano e un magrebino intrappolati nella realtà dei margini, nello status insovvertibile di minoranza. La macchina da presa li accompagna nelle stanze delle case popolari, ne accoglie gli sfoghi e copre loro le spalle, ma è anche capace di involarsi da una finestra per dare corpo alle note di un DJ e librarsi tra i tetti della banlieue. Un perfetto equilibrio tra l’apparente spontaneità del mostrato e l’espressionismo stilistico dello sguardo, con la fotografia di Pierre Aïm che scava i volti per cercarne gli spigoli. Perché il profilo della periferia non lascia spazio alle sfumature. È piuttosto il regno di un bianco e nero plastico o di punti di vista anomali sbilanciati fino al parossismo. Il compromesso è destinato a fallire, così come l’attesa di un lieto fine. Non c’è una morale nell’aneddoto di un vecchio incontrato nei cessi pubblici, o nella morte di Abdel Ichicha appresa dai monitor della metro. C’è solo la vita di strada, lontana dai media a caccia di scoop, proprio come la crudezza del dialetto verlan é lontana dal morbido francese, o come la cultura della banlieue, fatta di hip hop, graffiti e break dance, è incompatibile con lo snobismo di una mostra d’arte contemporanea. L’odissea della pistola trovata da Vinz si accompagna a un sinistro ticchettio. Un presagio di detonazione che segna l’escalation, o meglio la caduta, di una società che continua a ripetersi “Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene…”.
L’odio [La Haine, Francia 1995] REGIA Mathieu Kassovitz.
CAST Vincent Cassel, Hubert Koundé, Saïd Taghmaoui.
SCENEGGIATURA Mathieu Kassovitz. FOTOGRAFIA Pierre Aïm. MUSICHE Vincent Tulli.
Drammatico, durata 95 minuti.