SPECIALE BEAT GENERATION
E così vorresti fare lo sceneggiatore?
Barfly, primo film realmente incentrato sulla figura “maledetta” di Charles Bukowski, è un’opera profondamente sbagliata per un motivo molto semplice: è stato scritto dal medesimo Bukowski.
Nella raggiunta agiatezza dei suoi 67 anni e supportato dalla cieca fiducia degli Zoetrope Studios e di Francis Ford Coppola (!!), il caro vecchio Buko ha pensato bene di calarci nella parte degradata di Los Angeles all’epoca dei suoi trent’anni, in un microcosmo fradicio e stracciato raccontato in modo talmente sbilenco da lasciar lecitamente pensare ad un’intenzionalità, ovvero al desiderio quasi auto-distruttivo di sabotare anche la propria stessa celebrazione. Ci piace pensarla così, perché Barfly non possiede alcun senso della drammaturgia, stona con accurata precisione ogni possibile tonalità e non possiede neppure quel poco di ironia che gli avrebbe concesso di elevarsi al di sopra della retorica in cui al contrario affoga. Tra insegne luminose rotte, locali malfamati ed edifici fatiscenti lo scrittore Henry Chinaski passa le sue giornate fra sbornie clamorose, risse al pub sempre con lo stesso barista – trattasi di Frank Stallone, fratello di – e febbrile scrittura notturna. Henry è un personaggio disgustoso, che rende impossibile qualunque tipo di immedesimazione. In questo la scrittura del demiurgo Bukowski rimane fedele ai suoi romanzi/racconti: se amassimo Chinaski verrebbe meno la linfa di cui lo stesso autore si nutre, ovvero l’emarginazione. Rimaniamo in piedi quindi, almeno fino a quando i terrificanti uppercut del copione non ci stendono senza pietà alcuna. Ogni singolo dialogo è una compiaciuta ed esasperante sequela di luoghi comuni, dalla presunta appartenenza al sottobosco del degrado (“Non capisco che ci trovi in quell’ubriacone”, “Bè, Henry è uno di noi”), fino all’auto-assoluzione plenaria per la propria nullafacenza (“Questo palazzo è una gabbia dorata. Io appartengo alla strada, e odio le radici”). La differenza fra testo scritto e recitato si palesa nella totale mancanza di analisi, naturalmente implicita: Bukowski rifiuta la società e rigetta l’appartenenza a qualsivoglia corrente – quella Beat, su tutte – ma il suo impulsivo stile etilico massacra la civiltà yankee, fa a pezzi il sogno americano che non esiste né è mai esistito. Di tutto questo nel girato del regista Barbet Schroeder non v’è traccia, nonostante la sentitissima interpretazione di Mickey Rourke (preferito a Sean Penn, che non avrebbe voluto alcun compenso). Forse, molto semplicemente, Charles Bukowski era incapace di fare lo sceneggiatore. Ma noi, romanticamente, vogliamo immaginare che Barfly sia l’ennesima e suprema e finale presa in giro di un uomo che adorava Mozart, amava Schopenhauer, odiava ballare ma soprattutto detestava i film.
Barfly – Moscone da bar [Barfly, USA 1987] REGIA Barbet Schroeder.
CAST Mickey Rourke, Faye Dunaway, Alice Krige, Frank Stallone.
SCENEGGIATURA Charles Bukowski. FOTOGRAFIA Robby Müller. MUSICHE Jack Baran.
Drammatico, durata 97 minuti.