Manhattan Short Film Festival: ce n’è per tutti i gusti!
Grazie all’associazione Piemonte Movie, i 10 cortometraggi finalisti del Manhattan Short Film Festival sono sbarcati a Torino. Il Manhattan Short Film Festival è un festival itinerante e planetario, in cui il corto vincitore viene scelto dal voto degli spettatori di tutti i cinque continenti.
I corti scelti hanno in comune la volontà di unire ricerca visiva e stilistica con un’esplicita voglia di raccontare una storia: sono (quasi) tutti cortometraggi tutt’altro che visivamente banali, ma anche dichiaratamente narrativi, che quindi non hanno paura di affrontare – se necessario – la “tradizione”, cosa non ovvia visto un certo sperimentalismo estremizzato abbastanza diffuso nel mondo dei cortometraggi. L’opera più incisiva è Friday del britannico Seb Edwards: un ragazzo orfano di madre, vittima dell’attentato terrorista alla metropolitana di Londra, medita di vendicarsi con la stessa arma. La parabola dell’adolescente diventa metafora della lacerazione e del lutto di un intero popolo e della sua multietnicità, mentre il travaglio interiore del protagonista è trattato con efficace, ma non freddo, pudore e arricchito da inserti onirici. Inglese, completamente diverso, è anche Kizmet Diner di Mark Nunnely, tenera e fiabesca storia di un corteggiamento a suon di canzoni cantate tra i banconi di una tavola calda, tra il musical e la commedia romantica. Attraversando lo stretto di Belfast, l’Irlanda offre Irish Folk Forniture di Tony Donoghue, vivace e fantasioso documentario sul recupero e il restauro di mobili nell’Irlanda rurale, che affronta la questione con un certo surrealismo e con alcune tecniche tipiche più dell’animazione (la stop motion). Il film più divertente, nonché tra i migliori, è il finlandese Do I Have to Take Care of Everything? di Selma Vilhunen, che, con ritmo degno di una screwball, racconta di una mattina d’ordinaria confusione in una famiglia in cui la madre è oberata di compiti e responsabilità.
Si ride, con tra le righe maggiore amarezza, anche con l’australiano #30 di Timothy Wilde, dove un demenziale provino per il ruolo di Ofelia fa trasparire il disagio di chi cerca la notorietà a tutti i costi. La Francia invece offre due opere emblematiche di due tendenze del suo cinema, quella di grande qualità e quella media raffinata ma vacua: la prima con Faces from Places di Bastien Dubois, film d’animazione in cui gli sfondi ad acquarello accompagnano ironici e affascinati viaggi a Mosca, in Qebec e a Islamabad. La seconda invece è rappresentata da No Comment di Alexandra Naoum, poco più di una barzelletta raccontata con una certa eterea eleganza. Abbandonando il vecchio continente, gli Stati Uniti offrono il robusto ma convenzionale Pale of Settlement di Jacob Sillman, che recupera la tragica realtà delle comunità ebraiche nella Russia zarista, incentrandosi su un bimbo in fuga dall’arruolamento coatto. Efficacemente intimista e psicologico, non lontano dallo stile cosiddetto “indie”, Black Metal di Kat Candler accompagna nell’angoscia di un cantante metal le cui canzoni sono ispirazione per un serial killer. Statunitense è anche l’opera più visionaria, pur nel suo realismo: I Am a Big Ball of Sadness di Ken Urban, dove un sagace uso dei primi piani e del montaggio visivo e sonoro toglie tre ospiti di una festa esclusiva dai comportamenti di circostanza e li costringe a raccontare i propri problemi. Insomma, come si è visto, c’è ne è per tutti i gusti.