Più che il percorso diagonale indicato da Alberto Barbera, il districarci tra i titoli di questa Mostra è stato uno slalom composto da smottamenti, pochi colpi ben assestati, perplessità diffuse.
La strada è in definizione, le idee in vitro, ma nel complesso la 70esima edizione – presentata come “sorprendente” e “sperimentale” – ha deluso: per la piattezza di numerose opere presenti, per la mancanza di alcune cinematografie grandi e piccole, per la collocazione discutibile delle pellicole nelle varie categorie. È specialmente questione di se(le)zione: il capolavoro (l’unico!) schizzato di sangue e cinefilia Why don’t you play in hell? è stato relegato in Orizzonti – che ha premiato la regia del malincuorico Still Life, meritevole anch’esso del concorso ufficiale, il quale si è rivelato infatti poco incisivo e assemblato con maldestria (schierando fra gli altri il peggior Miyazaki, l’Amelio più debole, una Reichardt atarassica, un ammuffito Curran). Inoltre suona eccessivamente presuntuoso definire rivoluzionaria la scelta di inserire dei documentari in concorso, ma anche il fatto che uno abbia trionfato: l’affetto bertolucciano verso Rosi sa di favoritismo e di alternativa (missione: spiazzamento), e Sacro GRA è un ritratto microcosmotico slabbrato. Eppure nello sguazzare filmico, in una rassegna in cui il meglio era quasi sempre e pericolosamente vicino al male minore, l’impressione è che anche le storie (riuscite o meno) abbiano riflesso il disorientamento e la perdita dei punti di riferimento. Le autorità non esistono: in Joe rimangono a guardare passivamente il crollo, in Via Castellana Bandiera vengono evocate e derise. I padri (ci) distruggono (carnefici in Miss Violence e The Police Officer’s Wife): ci salveranno, forse, quelli putativi. Le madri intuiscono ma tacciono per autoconservazione (la Agathe di Tom à la ferme, film inqueto e ribollente), perdono col sorriso (Philomena), sono fantasmi ritornanti che piangono nel/il vuoto (Stray Dogs). Gli epicentri sono personaggi stretti ai margini, che si dibattono nel sistema per una remota liberazione; e nel caos dell’assenza il corpo è centrale. Definisce ciò che si è, anche solo (la mancanza di) una parte di esso: siano capelli debellati per l’altrui accettazione, sia il membro virile reciso per vendetta e disperazione (nel nuovo film-tortura di Ki-Duk). Il corpo evolve in qualcosa che non conosciamo ancora: e siamo al contempo uomini-automi, aliene che scorgono l’umanità, adolescenti smarrite in un’esistenza privata di senso e futuro (ma a ritmo di tweet). Corpi scissi, che nascono e muoiono, oppure perdono semplicemente peso, significato, presenza: nello spazio, rifratti dalla gravità, si è totalmente soli, ma mai quanto in una piccola casa nel bosco o ad una tavola apparecchiata per una famiglia (s)finita.