SPECIALE 70a MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
Prospettiva di un delitto
La realtà è un’arma a doppio taglio. Professarsi programmaticamente aderenti alla “verità dei fatti” non basta a scongiurare il rischio di menzogna: perché qualsiasi indagine si origina da un punto di vista. Ad esempio, quello di Abraham Zapruder, un uomo come tanti, che il 22 novembre 1963 si trovò per caso nel punto ottimale da cui riprendere l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy.
Generando un filmato – pochi secondi – ormai consumato dagli occhi dell’immaginario collettivo, fotografia sgranata e colori accesi, il gesto stupefacente e agghiacciante di Jackie Bouvier che si allunga a raccogliere un frammento di cervello del marito, il silenzio assordante del sonoro assente. Visto, rivisto, stravisto, eppure fascinazione irresistibile – come, molti anni dopo, le immagini delle Torri Gemelle che si disfano in una nube di fumo morto. L’evento si restituisce a noi in forma “filmica”, e questo è parte del trauma, della cicatrice. L’evento è un punto di vista. Peter Landesman è giovane, finora non ha fatto quasi niente, ma a Venezia70 porta in Concorso il suo primo film, Parkland, e sceglie di aprirlo con una didascalia che recita più o meno così: “questo è il racconto fedele di ciò che accadde a Dallas il 22 novembre 1963 e durante i tre giorni che seguirono”. “Parkland” è il nome dell’ospedale in cui arrivarono, e morirono, nel giro di poche ore, il Presidente e il suo (presunto?) assassino. E, soprattutto nella sua seconda parte, Parkland tenta di giocare su questo dualismo, sulla contrapposizione esasperata tra il primo e l’ultimo, relegando il racconto del funerale solenne e arcinoto dentro una radio per mostrarci la sepoltura desolata di Lee Harvey Oswald. Parkland vorrebbe pure raccontare la gente comune, dell’infermiera qualunque che si trova sul tavolo operatorio l’uomo più potente del mondo, dell’umanità devastata da un assassinio che sconfina nel parricidio: ma la coralità non ci dice nulla dell’America che si è spezzata quel giorno (vedere piuttosto, a proposito, Bobby di Emilio Estevez). È una questione di punto di vista: Landesman vuole ancorarsi alle prove, raccontare tutto ciò che si sa di certo. Il risultato è una distanza incolmabile tra pubblico e pellicola, una restituzione vuota e sterile, in ultima analisi un film inutile. Perché quel che è successo davvero il 22 novembre 1963 a Dallas non è una mera cronologia di avvenimenti, un susseguirsi di reazioni, di lacrime, di incredulità e grida. La realtà è un’arma a doppio taglio: abbiamo visto, rivisto e stravisto il filmato di Zapruder, le dirette tv da Manhattan l’11/9/2001. Eppure, ancora non abbiamo capito. Parkland non colma (ma non sembra nemmeno provarci) la distanza tra ricostruzione e verità. E finisce per non servire a nulla, per assomigliare a un resoconto asettico che si spegne dentro il suo stesso brusio di fondo.
Parkland [id., USA 2013] REGIA Peter Landesman.
CAST Paul Giamatti, Zac Efron, Tom Welling, Marcia Gay Harden, James Badge Haley.
SCENEGGIATURA Peter Landesman. FOTOGRAFIA Barry Ackroyd. MUSICHE James Newton Howard.
Drammatico, durata 93 minuti.