SPECIALE AUTORI VENEZIA 70 – PARTE II
Ragazzo “dentro”
Ha raccontato la vita nei suoi bisogni primari: la fame, la povertà, la lotta per la sopravvivenza. Con sguardo lucido e delicato, mai riduttivo, né consolatorio, in più di quarant’anni di carriera Gianni Amelio ci ha raccontato di padri inadeguati e assenti, di figli abusati e abbandonati, storie di sottosviluppo e di estremo abbandono, di emigrazione e diffidenza, di un’umanità sola, quasi sempre sconfitta, storie che in una qualche misura appartengono tutte al suo vissuto, ma che non per questo si limitano ad attingere ai ricordi e alla memoria personale dell’autore.
Calabrese di San Pietro Magisano, classe 1945, figlio di un padre diciassettenne e una madre quindicenne, Gianni Amelio cresce in una famiglia povera, senza padre, sostanzialmente allevato dalla nonna materna, che insiste per farlo studiare. Il debutto nel mondo del cinema avviene nel 1965 quando, ancora studente di Filosofia all’Università di Messina, Vittorio De Seta lo assume come assistente volontario per Un uomo a metà: da allora, oltre a svolgere il ruolo di aiuto regista, Amelio – sotto pseudonimo – scrive sceneggiature di film western e collabora a decine di spot pubblicitari, fino all’esordio come regista nella serie televisiva dei “Programmi Sperimentali” Rai con La fine del gioco (1970). Qui, la storia del piccolo Leonardo, segna non solo l’inizio della lunga carriera del regista calabrese, ma costituisce un momento-chiave nell’espressione del credo personale e della poetica d’autore.
Inizialmente più attivo per il piccolo piuttosto che per il grande schermo – da La fine del gioco a I velieri (1983), passando per La città del sole (1973), Bertolucci secondo il cinema (1976), La morte al lavoro (1978), Effetti speciali e Il piccolo Archimede (1979) -, è con Colpire al cuore (1982) che il regista realizza il primo lungometraggio per il cinema, lavoro che aprirà la stagione più fortunata della sua carriera. Al suo apice negli anni Ottanta e Novanta, la filmografia di Amelio ci regala alcuni tra i migliori film italiani di quegli anni: I ragazzi di via Panisperna (1988), Porte aperte (1990), Il ladro di bambini (1992), Lamerica (1994), fino al culmine di Così ridevano (1998), opera premiata con il Leone d’oro alla 55a Mostra del Cinema di Venezia. Regista sempre in viaggio nei suoi film, anche nei suoi ultimi lavori Amelio continua a raccontare i deboli e gli sconfitti – La stella che non c’è (2006), Le chiavi di casa (2004), Il primo uomo (2011) -, continuando incessantemente a descrivere, attraverso i moti fisici dei suoi personaggi, le loro traiettorie sentimentali nascoste nei cortocircuiti dell’anima. Sempre attento al qui e ora, anche quando racconta il passato e l’altrove; mai banale. Consapevolmente rivolto alla Storia, ma soprattutto agli oppressi che la subiscono, il lavoro di Gianni Amelio è uno dei risultati più significativi raggiunti dal cinema italiano contemporaneo. Un cinema rigoroso dal punto di vista stilistico-formale, e passionale, che a una ben precisa dichiarazione di intenti – un profondo senso di fratellanza con coloro che si trovano a dover soddisfare i bisogni elementari nella vita, i poveri, affianca il trasporto palpitante dell’invenzione artistica, riuscendo a raggiungere, in alcuni casi, la precisione del resoconto storico e la valenza dello studio antropologico.
In concorso alla 70a Mostra del cinema di Venezia con la commedia L’intrepido (interpretata da Antonio Albanese), il suo è uno tra i ritorni più attesi. Attendiamo con ansia di sentirci raccontare un’altra delle sue storie, questa volta ambientata nel nostro tempo di crisi, una delle nostre storie. Per riflettere con lui sull’Italia di oggi e sui suoi nuovi poveri ed esclusi, senza compiangerci.