28 AGOSTO, COMPLEANNO DI DAVID FINCHER
Il collasso delle identità
“Che volevi fare, sballato?” “Volevo distruggere qualcosa di bello”. Facce d’angelo ridotte in poltiglia, ossa martoriate, carni inondate di getti di sangue caldo fino ad affogare nel dolore la rabbia e la frustrazione: sono i paesaggi fisici di un’umanità che si divora con foga, effigi esistenziali di un mondo alienato nel vortice della pazzia.
David Fincher non ha paura a sporcarsi le mani. Da buon narratore del nichilismo moderno sa che per guardare giù nell’abisso un po’ “mostro” lo devi diventare e tra tutta quella violenza, quell’orrore che opprime gli occhi e stritola lo stomaco, hai poco da scegliere: o l’eccesso o niente. Perché il senso di perdita non conosce mezze misure quando, lasciato irrisolto, per silenziarlo lo si schiaccia sotto ipotesi di felicità chiamate “status symbol”, “carriera rampante”, “ultimo modello di macchina sportiva”. Bisogni indotti che creano dipendenza, gettano nell’assuefazione e pompano fino ai livelli massimi il senso di insoddisfazione. Poi, un giorno, la mente non ce la fa più. In overdose di illusioni e simulazioni brama vita vera, quella fatta di materia organica, di sudore e sangue, di corpi urlanti che si scontrano selvaggi e si uniscono in amplessi ferini. Fight Club o della crisi dell’uomo post-moderno. Fight Club o del delirio schizofrenico di una società malata. Film profetico, debordante, dal montaggio all’insegna della frenesia semantica e delle soggettive ingannevoli; film cupo e viscerale, con picchi di sesso isterico, attori in stato di grazia − e uno, in particolare, “figo” fin oltre l’inverosimile − e sequenze puntellate da scene e movimenti di macchina immersivi che perforano lo sguardo come aghi traballanti le vene gonfie su pelle candida. Film che non concede vie d’uscita se non (forse) alla fine di tutto quando incide magistralmente su occhi e pellicola una verità che gronda consapevolezza, sconfitta, disperazione. Il “j’accuse” barbarico del guru Tyler Durden sa, nella sua fase pugilistica originaria, di rivoluzione e catarsi ma puzza di terrorismo e neo-fascismo travestito al potere una volta uscito dagli scantinati: un prontuario allucinato delle derive più pericolose della società consumistica, colpevole di aver sacrificato il concetto stesso di identità sull’altare dell’avere e dell’omologazione. Cosa resta se, tra gli incubi e l’insonnia, ti rivelano che “tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei i tuoi vestiti di marca”? Violenza schizoide, questa la risposta perentoria di Fincher. Scissione compensativa votata all’azione estrema. Guerra autodistruttiva. Tutte scorciatoie infernali verso quell’abisso che ti guarda dentro solo perché è già dentro di te, nel doppiofondo incancrenito di un’anima divenuta ostaggio delle sue debolezze, di un sistema corrotto in cui alla libertà dell’individuo si è sostituito il totalitarismo delle merci. “Le cose che possiedi, alla fine, ti possiedono”. Tyler dixit e se lo ascoltate, attenti: tornare indietro non vi sarà più possibile.
Fight Club [id., USA 1999] REGIA David Fincher.
CAST Brad Pitt, Edward Norton, Helena Bonham Carter, Meat Loaf, Jared Leto.
SCENEGGIATURA Jim Uhls. FOTOGRAFIA Jeff Cronenweth. MUSICHE Dust Brothers.
Drammatico/Thriller, durata 139 minuti.