SPECIALE AUTORI VENEZIA 70
La cicatrice permanente
Sparute frange di cinefili a parte, l’Italia che va in sala non conosce il cinema di Philippe Garrel e ne ignora la commovente capacità di intercettare, film dopo film, la ferita reale di un occidente lacerato tra la nostalgia e il declino.
Chi – come Enrico Ghezzi con Fuori Orario – ha voluto difendere gli ultimi spazi disponibili per accedere all’opera di Garrel, sa bene che i suoi film, prima che opere d’arte fatalmente mancate, sono ossessioni inguaribili e palpitanti, divise tra memoria personale e bilanci sulla Storia, capaci di raccontare il nulla dei sentimenti, e quindi di raccontare tutto. Figlio dell’attore Maurice e padre del promettente Louis, entrambi presenze fantasmatiche del suo cinema, Philippe Garrel ha operato una parabola autoriale eclettica e complessa, che oggi si tende ad articolare in stagioni senza volerne svilire la durevole coerenza. Destinato a rimanere l’unico erede del cinema di Bresson e Godard, Garrel comincia a lavorare ai propri film già negli anni Sessanta, quando la sua ricerca si caratterizza per una forte componente sperimentale, di cui Le Révélateur (1968), film muto, freudiano, fatto di tunnel, foreste, percorsi contorti, è l’esempio più memorabile. Negli anni Settanta la relazione con Nico e la prossimità al cinema underground danno vita a opere ancor più radicali, estranee all’industria, vere e proprie proposte sensoriali dove l’attenzione alla “liturgia dei corpi” (Deleuze) e il gusto per l’inquadratura lunga, fatta di carrellate magnetiche ed estenuanti, prevalgono ancora una volta sulla parola e sulla narrazione: è il caso de La cicatrice intérieure (1971), film circolare e primitivo nel suo tentativo di mettere in scena, entro cornici desolanti e ostili (Dominique Noguez cita le tele simboliste di Puvis de Chavannes), l’emergenza del dissidio tra individuo e mondo e la tensione a catturare con la macchina da presa i sintomi genetici del processo figurativo. Questi e molti altri aspetti confluiscono nella produzione degli Ottanta, quando a prevalere è un ritorno alla realtà (la droga, l’HIV) e alla scrittura, sempre secondo schemi antinarrativi e destinando all’attore e al suo gesto una centralità disarmante, mentre la parola risulta sospesa, incapace di fare ordine, destinata a precipitare nell’ennesimo silenzio. Di questo si nutrono le prove della maturità, a partire da quel ritratto minimo e insieme massimalista che è J’entends plus la guitare (1991), film straziante nel riuscire a restituire, come un’epifania, la fine della giovinezza e la natura frammentaria dell’esperienza amorosa, fino al lungo travaglio immaginifico che porta a Les amants réguliers (2005), premiato per la regia e lo splendido bianco e nero a Venezia, definitivo omaggio al ’68 parigino e al suo cinema (e all’amico Jean Eustache), sintesi profonda di un’intera epoca perduta, quella della contestazione e dell’amore libero, della sperimentazione e della psichedelia, quando le relazioni fra gli individui riflettevano una precisa prospettiva sul mondo. Lontano da quell’epoca e dalla sua utopia, anche il presente è un campo di battaglia per i sentimenti di chi ha perduto se stesso e, dentro di sé, porta la cicatrice congenita e permanente di un’intera realtà disorientata. Come suggerisce Jean-Pierre Léaud a Lou Castel in La naissance de l’amour (1993), tutto l’occidente soffre per la perdita del destino, e girovaga a caso. In questa assoluta malinconia si colloca il cinema di Philippe Garrel.