66° Festival del film Locarno, 7 – 17 agosto 2013, Locarno
Verso luoghi profondi
Due film tanto lontani geograficamente quanto vicini per la loro voce poetica, capace di ritrarre gli aspetti più oscuri dell’anima umana e di intessere un rapporto privilegiato con la natura, che accompagna poco a poco lo svolgersi della storia assumendo forza metaforica, ma non solo. La Natura serve a ricordare la complessità della vita e a mostrarne le forze, a volte distruttrici, altre rigeneranti.
Backwater (Tomogui, Giappone 2013, regia di Shinji Aoyama, Concorso Internazionale)
Vita e morte non sono mai state così vicine, tanto da far scorrere un brivido continuo lungo la schiena, e riempire di poesia quella che è la messa in scena dei più reconditi angoli dell’animo umano. Una storia densa di poesia, di filosofia, un’opera sensibile e sconvolgente. Toma è figlio di una coppia separata e vive in un paese di periferia, lungo il fiume, soprannominato vagina, da cui decorre la vita. La madre è pescatrice, il padre donnaiolo, la coppia separata. Toma fa la spola tra i due, pesca, vive le sue prime esperienze sessuali. Ma presto le cose si rivelano nella loro profondità: il fiume diventa torbido, profondo, e annega i sentimenti. Il trauma riaffiora e sconvolge il presente, portando a conseguenze che poco a poco culminano nello sfascio totale di più vite. Si chiude un capitolo, il fiume ostruito si libera, inizia una nuova vita… Il cinema giapponese è conosciuto per la sua delicatezza, per il suo stretto legame con la natura. Backwater segue la tradizione rispettando l’onnipresenza metaforica dell’elemento acqua, scegliendo però di trattare un tema poco trattato: quello della sessualità sadica. Un tema scomodo e pesante, trattato però con tutta la leggerezza, la finezza e la poesia del grande cinema giapponese. Anche per questo, Backwater rientra nella sfera del capolavoro. Un film da vedere e sentire sotto pelle, che pur parlandoci di questioni lontane ambientate in un altro mondo, un po’ atemporale e apparentemente autosufficiente, ha la forza universale del mito greco, capace di dire oltre i fatti, di narrare la vita per quale è davvero.
Tonnerre (id., Francia 2013, regia di Guillaume Brac, Concorso Internazionale)
Come in una poesia, il titolo già cela l’equilibrio tra il detto e il taciuto, tra il divinare e l’intravvedere. Tonnerre, Fulmine. Quello potente, duro, cha fa paura e gela il sangue all’improvviso. Che lo riscalda, anche, con un’elettricità pericolosa. Tonerre può essere l’amore, pure in una cittadina di provincia, tranquilla e immersa nel bianco e freddo inverno. Per Maxime, rockstar in pausa dal mondo, il colpo è sventato da un’adorabile ragazzina, che per il giornale della città gli pone qualche domanda. È un tipo emotivo, umorale, ma sembra essersi riadattato alla vita fuori città, col padre e il cane nella casa di gioventù, a formare un commuovente terzetto. Sboccia un rapido amore, lei come un bocciolo in inverno si apre al tenebroso e al contempo solare Maxime che, persa la fiducia nel mondo, recupera con lei la speranza, la linfa vitale. Ma lei è giovane, forse troppo. Ai rischi di un amore precoce si aggiungono impietosi quelli del passato, della mente umana, dei segreti fili di ferro intessuti nell’animo di Maxime, rimestati dalla presenza del padre. Dopo il tuono, il silenzio. Insopportabile. Quindi il delirio, la corsa contro il tempo, contro la verità che opprime, corrode. Un film scritto e diretto con grande poesia, alla quale la naturalezza dei protagonisti regala un’ulteriore profondità e sincerità, del tutto inusuali. Come un fulmine si sventa anche questo film nel panorama contemporaneo, evocando col suo titolo tutta la forza delle sue immagini e della sua storia, che racconta i chiaroscuri dell’animo umano.