66° Festival del film Locarno, 7 – 17 agosto 2013, Locarno
Aurélie Godet ha cominciato la sua carriera nel cinema dieci anni fa, quando, dopo aver lavorato per qualche anno come analista di mercato nel settore della video, ha deciso di lasciare tutto per amore del cinema. Partita a New York con il coraggio che nasce da una decisione ben maturata, la sua strada è da allora in ascesa. In questo breve lasso di tempo, Aurélie è diventata recentemente la più giovane programmatrice del Festival del film Locarno. Vediamo dunque insieme a lei quali sono state le varie tappe di quest’evoluzione, cosa c’è dietro alla scelta radicale di partire a New York e quali sono le sue prossime sfide.
Cosa volevi diventare quando eri a scuola? Sei sempre stata una cinefila?
Amo il cinema da quando sono piccola. Già a 4 anni chiedevo ai miei genitori di mostrarmi gli stessi film più volte. Ma per me non è stata una scelta scontata quella di fare di questa passione un mestiere. Dopo 5 anni di lavoro ho però capito di voler fondere l’amore per il cinema alla mia vita professionale. Per mettere in atto questa scelta sono partita per un nuovo paese, non riuscendo a trovare la soluzione restando a Parigi. Sono partita per New York completamente all’avventura. Non conoscevo nessuno, e a Parigi per sei mesi ogni sera dopo il lavoro ho chiamato degli sconosciuti per ottenere dei consigli, e infine trovare un lavoro. Il campo del cinema a New York è abbastanza ristretto: molte persone sognano di lavorare in questo campo, e trattandosi di americani, non hanno il problema del visto… Con gli americani c’è però una facilità di contatto che qui in Europa manca… c’era quindi comunque qualcosa di accogliente e incoraggiante.
Eri una studentessa diligente? Hai avuto dei professori che ti hanno saputo guidare?
Si, ero un’allieva estremamente diligente (ride). Ho avuto dei professori che mi hanno guidata umanamente, che mi hanno dato voglia di imparare. Trovo però che la scuola dovrebbe aiutare maggiormente i giovani a capire quali sono i loro desideri profondi, così da renderli dei giovani adulti confidenti piuttosto che timorati.
Immagino che tu abbia sempre saputo scrivere…
Si, ho sempre amato scrivere. Fino a poco tempo fa, si trattava piuttosto di un piacere, più che di una attività professionale. Ho scritto dei racconti, degli scenari mai usati, qualche critica e delle traduzioni. Professionalmente, scrivo più sistematicamente dal 2012, degli articoli per il Cahiers du Cinéma riguardanti piuttosto l’economia del cinema, così come dei testi di presentazione per un magazine di una catena di gestione di cinema inglese e delle interviste.
Quando guardi un film, scriverne diventa un automatismo per te?
In confronto ad altre persone del campo, direi di no. Ho soprattutto voglia di condividere il film con altre persone, ed essendo circondata da cinefili, non è un problema. L’esercizio della scrittura è estremamente importante e piacevole, anche se non ho ancora sviluppato completamente questo riflesso, e sto ancora provando diverse tecniche. Passo sicuramente più tempo a leggere critiche che a scriverne.
Quando vedi un film preferisci scriverne prima degli altri, oppure creare un dialogo con quello che di questi film è già stato scritto?
Può essere divertente inserirsi nel dialogo su dei film un po’ contraddittori, che suscitano delle reazioni diverse. Le critiche degli altri non mi paralizzano. È totalmente un’altra esperienza rispetto allo scrivere per primi su un film. In quei casi c’è un po’ più di rischio, può essere più difficile ma allo stesso tempo dà una grande libertà e la fierezza di dare agli altri la voglia di scoprire il film. Entrambe le pratiche sono ugualmente interessanti.
Ci puoi raccontare della tua prima esperienza a New York con Alfonso Cuarón?
(Aurélie ha lavorato per due anni con Esperanto Filmoj, casa di produzione fondata dal regista messicano Alfonso Cuarón, noto per Y tu Mama Tambien e Harry Potter e il prigioniero di Azkaban)
Si trattava di una microstruttura: un ufficio con 4-5 persone che però aveva il potenziale di ottenere i finanziamenti per lanciarsi in progetti blockbuster. Un’esperienza davvero unica! Mi occupavo della parte dello sviluppo, proponendo a Cuarón dei progetti di tutti i tipi… dal cercare un autore per adattare un articolo letto in una rivista al fare dei commenti su una sceneggiatura che stava per essere girata, senza un programma fisso.
Come hai trovato questo lavoro?
Arrivando a New York ho capito davvero il concetto di networking. Ho avuto tra i due e i quattro appuntamenti al giorno, a volte con delle persone che chiamavo dalla strada, dicendo che ero di passaggio e sarei presto partita, e quindi se potevano vedermi al più presto… domandavo loro se avessero altre persone da presentarmi. Hai bisogno di molti incontri di questo tipo per incontrare qualcuno che abbia voglia di fare degli sforzi per permetterti di cambiare vita, anche se si tratta di lavorare gratuitamente per loro. Alla fine c’è stata una corrispondenza con il loro bisogno d’aiuto. Nell’équipe non erano contro l’idea di profili internazionali.
Cos’è per te il networking?
È il bisogno di connettersi con delle persone sconosciute in maniera disgiunta da un bisogno immediato. Non si tratta di rispondere a un’offerta di lavoro, le persone che accettano di vederti non hanno necessariamente dei posti per te. Ci si incontra perché hai bisogno dei consigli altrui, di capire qual è il loro mestiere, di farti dare delle idee, e raccomandare ad altri… dovrebbero insegnarlo al liceo!
Cos’altro vorresti dire a questi liceali?
Spesso i giovani sono messi su delle rotaie, con dei modi di pensare rigidi, con un’idea abbastanza ristretta di quello che sono capaci di fare, di quello che valgono. Bisogna confrontarsi alla realtà per sviluppare l’apertura di spirito, cogliere delle occasioni che non corrispondono per forza a quello che ti era stato messo in testa. Ho avuto bisogno di alcuni anni di lavoro per capire che ero pronta a qualsiasi sforzo per unire passione e professione. Probabilmente perché non conoscevo nessuno che lavorasse in questo campo. Ma non puoi pentirti di scelte che hai preso quando sei giovane. Quella di cambiare è stata una decisione lungamente maturata. Si tratta di domande che ti poni a lungo, di decisioni sulle quali non avrai il dubbio di esserti sbagliato.
Quanti film vedi, a grandi linee?
Tra dicembre e giugno, per Locarno ho visto almeno 500 film, comprese le proiezioni private per il Festival, nelle proiezioni di mercato di altri festival, le proiezioni degli istituzionali (Unifrance), quelle degli incontri per programmatori.
Continui a vedere film anche per il piacere?
Si, ne vedo diversi ogni settimana, spinta dal desiderio di condividere la mia passione con altre persone e i miei cari. Credo si tratti di una motivazione essenziali per fare questo mestiere. Detto questo, andare al cinema è un’attività piuttosto solitaria, anche perché frequente. Spesso improvviso, scendo dal métro a metà strada per vedere un film. Se vedo un buon film, lo consiglio ai miei cari, per me è estremamente piacevole condividerne l’esperienza. Spesso andiamo al cinema insieme.
Quali sono i tuoi cinema preferiti?
Li amo tutti, è la programmazione a guidarmi. Frequento sia i multiplex che le piccole sale che non sono coperte dall’offerta delle “carte illimité” (che danno accesso a un gran numero di sale per circa 20 euro al mese).
Hai qualche rituale da cinefila?
Non sono né superstiziosa, né collezionista o feticista. Il più grande rituale per me è quello di sedermi nella sala con la più grande benevolenza.
Quanto ci vuole per capire che un film non è adatto alla selezione?
Può essere molto rapido, se il film non è buono. In altri casi si tratta di buoni film, ma che non corrispondono alla linea del festival, anche in questo caso si capisce abbastanza rapidamente. Nei periodi di visionamento intensivo è una vera sfida mantenere la mente chiara ed è umano cambiare idea. Se hai un dubbio, devi accettarlo, anche se ciò implica rivedere il film. Il comitato di selezione serve a questo, le decisioni nascono anche dalle discussioni prese in seno all’équipe (a Locarno costituita inoltre da Sergio Fant, Lorenzo Esposito, Mark Peranson e presieduta dal direttore artistico Carlo Chatrian).
Ti capita spesso di cambiare idea dopo aver visto un film?
Non spesso… la mia prima impressione sui film è più affidabile di quella sulle persone (dice scherzando).
Poi ci sono i film che ami follemente in un momento della tua vita e dei quali poi ti stanchi, o che corrispondono a qualcosa di nuovo all’epoca e che non invecchiano bene. Non ci sono molti film che ho visto più di tre volte, ci sono talmente tanti altri film da scoprire… Happy Together, il primo film di Wong Kar-wai che abbia mai visto, è stato uno shock verso i miei 18 anni, ma è molto che non lo rivedo… non so se rivedendolo vivrei lo stesso sentimento. Un altro film è Baisers volés: saltavo di gioia per strada tanto mi era piaciuto.
Quindi preferisci mantenere il ricordo intatto e non riguardare questi film.
Si, la mia cinefilia è fondata su delle esperienze, dei sentimenti di meraviglia e di piacere, delle esperienze che mi hanno scossa o esaltata, che hanno fatto sì che il cinema fosse per me molto più importante dei miei altri interessi (il teatro, la musica), passati poi in secondo piano.
Quali sono a tuo avviso le qualità per un buon selezionatore?
Il piacere di mostrare e condividere i tuoi gusti con altre persone, non si può essere autistici in questo lavoro. Il selezionatore è anche il primo a vedere i film, prima che ne parlino i giornali. È un mestiere che richiedere d’essere avanti sugli altri, quindi ben informati e sicuri per quanto possibile dei propri giudizi a caldo. La cosa più importante è possedere un amore indistruttibile per i film. Ne vedo centinaia all’anno, ma non mi stanco mai. In generale, bisogna restare all’ascolto degli altri, non puoi fare questo mestiere stando isolato, devi essere capace a raccogliere le impressioni degli altri. Le fonti d’informazione sono dappertutto. È importante inoltre l’apertura di spirito, per restare sempre pronti a essere sorpresi, senza essere bardati dai pregiudizi.
Puoi rivelarci la tua prossima sfida? O ti consideri perfettamente felice così?
Sono contenta, ho impiegato del tempo per trovare la mia strada. Sono quel che si dice un late bloomer. È veramente un mestiere che penso di fare bene, la lista che ti ho fatto è una lista che porto in me da tanto e che adoro, e spero di sviluppare. E chiaramente spero anche che il festival sarà un gran successo, seguito da altri (sorride).