Il racconto di un Mistero buffo
È stato un giovanotto egoista, senza veri ideali (Il moralista, 1959; Il vedovo, 1959), il rompiscatole vestito come un boy scout, innamorato della signorina Margherita (Mamma mia, che impressione!, 1951). Ha segnato il nostro cinema, dando corpo ad alcune delle scene e delle maschere più amate – pensiamo al celebre Nando Mericoni di Un americano a Roma o al mai dimenticato Guglielmo il dentone de I complessi (1965).
Ha “somatizzato” le nostre manie, le nostre nevrosi, le nostre ossessioni, facendole diventare tic, “balbuzie” di pensiero e di parola. Questo e molto altro è stato Alberto Sordi. A lui, infatti, è stata dedicata una giornata, durante il 32° Premio Amidei, per ricordarlo nel decimo anno dalla sua morte, proiettando L’arte di arrangiarsi (Luigi Zampa, 1954), Detenuto in attesa di giudizio (Nanni Loy, 1971) e il toccante documentario Alberto il grande (2013) di Luca e Carlo Verdone. Se nella prima pellicola, una commedia, viene fuori il qualunquismo italico con Rosario Scimoni, emblema dell’italiano, artista del riciclarsi e dell’arrangiarsi nella vita, nella seconda, un dramma terribile e doloroso, si racconta un caso di malagiustizia attraverso Giuseppe Di Noi, geometra che compie un infausto e penoso viaggio in Italia. Riso e pianto, commedia e tragedia si mescolano nella sua carriera e in lui, nel suo volto – primi piani faticosi da sopportare per la loro “verità” o espressione di un approccio sardonico alla vita – e nel suo corpo – capace di “capriole” vitali e gagliarde, come di convulsioni tragiche e crudeli. Queste due nature si fondono nel tragicomico, marchio espressivo dell’attore romano, e si combinano perfettamente nel documentario dei fratelli Verdone, da cui traspaiono amore e tenerezza per quel padre-capocomico, nume tutelare tanto caro a noi e ai registi. Tra sequenze di film, interviste ad amici, familiari e colleghi, passeggiate in villa Sordi, accompagnati da un Virgilio-Verdone, proviamo nostalgia per un mondo che non abbiamo vissuto, per un cinema che è passato. “Ve lo meritate Alberto Sordi”, gridava Nanni Moretti in Ecce Bombo (1978), ed è proprio vero. L’attore ha significato tutto: quello che vediamo siamo noi, che ci portiamo dietro da sempre quella boria tipicamente italica, quella spocchia “togata”, da italiano medio. E se, da una parte, vorremmo separarci, staccarci da quell’essere così mostruoso e manchevole (di qualcosa), dall’altra ne siamo misteriosamente e incredibilmente irretiti, legati a quell’uomo un po’ Arlecchino e un po’ Pulcinella che ci fa tanto ridere. Alberto Sordi è stato in grado di intonarsi al “canto” nazionale (nel ’79 realizza per la tv Storia di un italiano in cui si mescolano immagini dell’attore e dell’uomo), di toccare le corde più intime dell’italianità tutta, raccontando noi e la nostra storia, sempre con quel drammatico e struggente sorriso (La grande guerra, 1959; Tutti a casa, 1960) di chi sa, come lui stesso ammetteva, che “la nostra realtà è tragica solo per 1/4: il resto è comico. Si può ridere su quasi tutto”.