Il rifugio dei sentimenti ritrovati
Che il regista Patrice Leconte, nato a Parigi nel 1947, non sia lo stereotipo o l’archetipo dell’autore intellettuale, erede della parte godardiana della Nouvelle Vague, lo si capisce scorrendo la sua filmografia a partire dal primo e sfortunatissimo Il cadavere era già morto (1975) fino all’ultimo esperimento d’animazione La bottega dei suicidi (2012).
Nelle storie di Leconte si respira solitudine e desiderio, nei suoi personaggi riconosciamo quella straordinaria malinconia tipicamente francese che da Jean Gabin a Jean Pierre Léaud, da Resnais ad Audiard, passando per Lelouch, ha contribuito a strutturare un cinema nazionale riconoscibile che si opponesse, più di altri, allo strapotere hollywoodiano. Prendiamo il primo grande film di Leconte, Tandem (1987), straordinario quadro del passaggio dei tempi, dell’avanzare dell’età e dell’incombere dell’insoddisfazione, nel quale Jean Rochefort interpreta un conduttore radiofonico dal nome esotico Michel Mortez che assieme al fido tecnico Rivetot (Gérard Jugnot) gira le periferie col programma La lingua al gatto che l’azienda ha già deciso di sopprimere. Oppure pensiamo all’incontro fortuito in L’uomo del treno fra il prof. Manesquier (sempre Rochefort) e l’ex carcerato Milan, che avviene ai margini della vita e della città, all’alba in una farmacia poco frequentata, o ancora la dolce Anna che, sbagliando porta, si trova davanti al suo destino, il commercialista William (Confidenze troppo intime). In tutte queste storie troviamo un protagonista che prova pietà o compassione per un altro essere umano, per il suo sentirsi fuori posto dentro il crudele scacchiere del mondo: in fondo non è tanto diverso il tentativo di Rivetot di celare continuamente la verità a Mortez rispetto alla bugia, prima ingenua poi complice, che lega l’insoddisfatta Anna col placido e disincantato William. Pietà e compassione passano spesso attraverso il filtro della sessualità che in Leconte riposa assopita sotto le pieghe dei dialoghi sofisticati, per poi irrompere come un getto di fuoco che carbonizza le convenzioni e le aspettative del pubblico. La danza liberatrice della giovane Marilyn a metà de La bottega dei suicidi ne é l’esempio più recente e forse più potente, perché in un attimo azzera ogni grado di immedesimazione, ricreandone subito di nuovi: non è più la figlia insoddisfatta e noiosa, ma una donna che scopre il suo corpo con vivacità. A volte didascalico, banale o fin troppo perfetto nel meccanismo che propone e impone, il pregio di Leconte è allo stesso tempo la sua maledizione: costruire dei meccanismi talmente precisi da rendere pressoché impossibile ogni dibattimento filosofico/intellettualista; se la storia funziona la porteremo nel cuore per molti anni, come avverrà nel mio caso con Tandem, se invece non capiamo il suo gioco, o lo capiamo fin troppo bene già dalle prime sequenze, difficilmente ne seguiremo gli sviluppi con attenzione (L’uomo del treno per quanto mi riguarda). Resta comunque la certezza di un cinema profondamente umano nel quale rifugiarsi a intervalli regolari, come una fuga invernale nella baita sulla spiaggia.