SPECIALE TEAM APATOW
Judd Apatow e la politica degli autori
Dedicare uno speciale a Judd Apatow può risultare arduo, principalmente perché si fa riferimento ad un corpus di opere spesso discontinue per caratteri e valore, di difficile assetto e create da un pool di collaboratori (attori, sceneggiatori, registi) più che da un’unica mente.
Soprattutto, però, è il genere a cui facciamo riferimento, la romantic comedy, a risultare troppo prevedibile e standardizzato da poterne ricavare alcunché di autoriale. Non è un caso che Questi sono i 40 esca nelle sale italiane nell’infelice stagione estiva, scambiata per “la solita commedia americana” uscita bell’e pronta dall’officina per riempire i periodi di magra. Effettivamente, fuori da un’agguerrita diatriba tra entusiasti e denigratori all’interno dell’esoterica comunità cinefila, poche persone, almeno in Italia, sanno chi sia Judd Apatow, e quando gli si parla di 40 anni vergine pensano sia l’ennesimo filmetto passato presto nel dimenticatoio come un Fatti, strafatti e strafighe qualsiasi. Judd Apatow non disdegna la natura industriale della propria opera: regista di soli cinque film, ne produce sei volte tanti (serie tv comprese), con vari gradi di continuità e riconoscibilità. Parlando della sua filmografia è difficile, e pure ingeneroso, ricercare lo scarto dalla norma: per quanto irriverente possa essere, la rom com difficilmente si sottrae alla dichiarazione preventiva di uno spoiler che riguarda l’accordo tra le parti. Ma Apatow non vuole rivoluzionare un bel niente. Tutto quello che fa è rideclinare la commedia romantica, gonfiandola di mezz’ora e più e permettendo, nel filtro di personaggi accuratamente caratterizzati, una certa consapevolezza nelle riflessioni. Risulta allora facile approfondire politicamente l’orizzonte matrimoniale, facendo di Molto incinta una parabola antiabortista o riflettendo sul valore della castità in 40 anni vergine. Ma ridurre il tutto ad una lettura ideologica può risultare impreciso. In fondo, il compromesso tra oralità scatologica e moralismo di ritorno, tipico di questo cinema, può benissimo leggersi come disincantata riflessione sull’innato conformismo dell’essere umano. Oltre a ciò c’è tanto di più. C’è un universo ipertestuale, il Team Apatow appunto, che funge da autentico marchio di riconoscibilità. Ci sono attori, come Seth Rogen, Jason Segel, Jonah Hill, Paul Rudd, la cui semplice apparizione fa pensare che dietro ci sia lo zampino di Judd. Ci sono divi come James Franco, che grazie a Freaks and Geeks ha raggiunto popolarità da blockbuster; per tacere di quel Frat Pack di attori più anziani, Owen Wilson, Jack Black, Ben Stiller, Will Ferrell, Steve Carrell e il sempre presente Adam Sandler. È con l’aiuto di un gruppo di lavoro fatto anche di registi collaborativi (Paul Feig, Nicholas Stoller e i più famosi David Gordon Green e Greg Mottola) che il marchio-Apatow può emergere in prodotti tra loro eterogenei rilevandone una vera e propria impronta autoriale. Certo, abituati ad una concezione che vede il metteur en scène come unico responsabile della riuscita dell’operazione, difficilmente accetteremo un produttore nella veste di autore. Sarebbe il caso di imparare dalla serialità e riconsiderare, quando serve, il lato meramente pratico della regia. In fondo, un po’ crocianamente, l’unica firma tangibile che emerge in calce (pur in una mosca bianca come Girls) è quella della Apatow Production.