Il corpo degli attori nella 66° edizione del Festival di Cannes permette di tracciare una mappa interpretativa, talvolta chiara, talvolta inestricabile, che si dipana tra le storie private ed intime, nei racconti d’individui immersi in esistenze travagliate e scisse. Le tribolazioni scalfiscono i corpi a differenti gradazioni, segnando fisicamente le performance.
Il fisico postadolescenziale da mannequin di Marina Vacht nelle mani di François Ozon (Jeune & Jolie) è il luogo deputato alle annoiate pulsioni di una belle de jour contemporanea. Il corpo è il campo di battaglia e la fotogenia è l’interpretazione. Con Heli di Amat Escalante (Miglior Regia) la competizione si spostata dalla gradevolezza fotogenica all’osceno, quel «divenire reale, totalmente reale, di qualcosa che fino a quel momento era metaforizzato e possedeva una dimensione traslata, figurata» già spiegato da Jean Baudrillard. E cosa c’è di più ripugnante di un corpo declassato a materiale da tortura, campo di battaglia (ora letterale), ai limiti della sostenibilità dello sguardo? I personaggi -ed in fondo anche gli attori- sono trasfigurati in carne da macello lasciata vivere in lunghi piani sequenza immobili, abbandonati in una terra inospitale dove la morte appare più probabile della vita. La nudità integrale maschile esibita in modo disincantato nel thriller omoerotico L’inconnu du Lac (di Alain Guiraudie, premiato nella sezione Un Certain Regard per la miglior regia) è osservata impudicamente in un acting out tra soft porno e finzione: Eros e Thanathos si sovrappongono, in un film che lavora in modo alternativo su quanto lo sguardo possa resistere alla messa in scena fedele dell’anatomia. Se i dettagli stranianti dei corpi disturbano o alimentano il voyeurismo spettatoriale, i volti si trasformano in parte per il tutto e valgono l’intera performance in Jimmy P. (Arnaud Desplechin), dove è la micromimica di Benicio Del Toro ad esprimere il tormento. Gli occhi aperti-chiusi di Rita (Sara Serraiocco) in Salvo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza (vincitori della Semaine de la Critique) si muovono sotto le palpebre nervosamente, anticipando l’apertura definitiva alla visione e provocando impeti mimici incontrollati. La grande bellezza di Paolo Sorrentino declassa invece il viso di Toni Servillo a maschera teatrale. La performance è parola spicciola, il verbo vince sull’espressività. Ryan Gosling in Only God Forgives (Nicolas Winding Refn) ha scelto a sua volta di orientarsi verso l’impassibilità, ma la sottrazione precipita in sparizione della performance. È sottrattiva anche la recitazione di Bruce Dern (premiato come miglior attore in Nebraska di Alexander Payne) che offre la verità senile del proprio corpo (così come avevano fatto Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva in Amour): il risultato è l’equilibrio tra fatica esistenziale e tenera ingenuità. In un ipotetico atlante anatomico del festival a restare sono questi frammenti, tracce di corpi che sfidano lo sguardo percorrendo traiettorie tra visibilità piena e insostenibilità.