SPECIALE PAOLO SORRENTINO
Roma Caput Vacui
La dolce vita è uno dei pochi veri grandi film epocali della storia del cinema italiano, la cui ombra si è allungata nei decenni grazie anche ad una rappresentazione che è diventata implacabile anticipazione di un Paese in mutamento. Il capolavoro di Fellini ha raggiunto negli anni la caratura di monumento.
Un film enorme e ambiguo, indefinibile e affascinante, magnetico e scomodo come la città di cui vuole essere omaggio e ritratto, e come lei memorabile e grandioso: quella Roma di cui, oltre 50 anni dopo, Paolo Sorrentino ha voluto fare un altro ritratto magniloquente e monumentale, ricalcando chiaramente i passi del maestro riminese d’origine e romano d’adozione. Sorrentino è ovviamente consapevole – ed è abbastanza sicuro di sé e del suo talento per volerlo fare – di ricalcare tali passi, e la sua grande bellezza appare come un aggiornamento del film di Fellini, continuamente citato nei luoghi (spesso però ribaltati nella loro funzione e nella loro attrattiva), nel gigantismo barocco, nella struttura corale che gira attorno al protagonista, nella rapsodia della narrazione, nella rappresentazione tra il mostruoso grottesco e il tragico e nella continua commistione di volgarità e nobiltà e di sacro e profano. Naturalmente definire La grande bellezza semplicemente un remake di La dolce vita è limitante. Nel 1960 Fellini stava assistendo ad un mutamento in atto, osservato con uno sguardo lucido e preveggente da antropologo solo all’apparenza (o meglio, solo in parte) distaccato e giocoso. Fellini è implacabile ma, come sempre, anche in parte ambiguo verso le persone e i fatti che osserva, e la pietà mista ad un vago senso d’affetto lo tiene lontano da formulare condanne totali. La società della dolce vita è caciarona, volgare, arrogante e inutile ma non viene messa alla berlina; non si ride di lei e non ci si indigna, ma si prova grande pena e tristezza. Mezzo secolo dopo, Sorrentino mette in scena il gioco al massacro di una società autoreferenziale e senza possibilità di salvezza, impegnata in un’eterna vacua e sempre più stanca parodia di se stessa (una “parodia della dolce vita”), ormai priva di possibilità d’appello e di comprensione. Pietà e barlumi di grande tenerezza vengono concessi solo alle vittime di un gioco a cui non hanno scelto di giocare. Questo non significa che La dolce vita sia più “ottimista” del film di Sorrentino; in esso scorre anzi una continua vena di inevitabile fatalismo. Si veda il tragico che ne La grande bellezza raramente si esplicita chiaramente, la morte di Steiner e il finale, con la mancata presa di consapevolezza e di coscienza di Marcello, il quale diventa così metafora dell’imminente declino del Paese. Al Jep di Servillo invece viene concessa un’ultima possibilità di capire e di sfuggire da una realtà senza senso e senza speranza.
La dolce vita [Italia 1960] REGIA Federico Fellini.
CAST Marcello Mastroianni, Anita Ekberg, Anouk Aimée, Alain Cuny.
SCENEGGIATURA Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, Brunello Rondi. FOTOGRAFIA Otello Martelli. MUSICHE Nino Rota.
Drammatico, durata 174 minuti.