SPECIALE FRANCIS SCOTT FITZGERALD
A ciascuno il suo
«Quale Gatsby?» chiede Daisy, come se davvero, nel suo mondo, potesse essercene più d’uno. Nel nostro, ora, c’è questo, quello di Baz Luhrmann: lavorazione travagliata, uscita rimandata di mese in mese, finalmente in sala nel 2013 dopo aver inaugurato le danze al festival di Cannes.
Il grande Gatsby di Baz Luhrmann è (ma va?) eccessivo, sfrenato, sfrontato. Kitschissimo. Esagerato. Anacronistico. Il grande Gatsby di Luhrmann veste Prada come il Diavolo, ascolta Lana Del Rey sublimemente lagnarsi, Beyoncé rifare Amy Winhouse e gli ospiti del suo castello scatenarsi su battiti house anni ‘20.
Come in Moulin Rouge!, si racconta in Courier New, direttamente dalla macchina da scrivere, attraverso la perdita d’innocenza degli occhi ingenui di un narratore, appena approdato in una sfavillante metropoli Belle Epoque. Come Romeo + Giulietta, ostenta un’aderenza al testo di partenza (là era il dipanarsi delle rime shakespeariane, qua interi dialoghi, frasi, citazioni, brani, presi e traslati di peso, perfino sovrimpressi su pellicola) per poi ovviamente tradirlo, alla faccia dei puristi. Ma, a differenza di Romeo + Giulietta e Moulin Rouge!, Il grande Gatsby non è un gigantesco amore tragico tra due ideali archetipici (e, per forza di cose, bidimensionali): Gatsby è un impostore megalomane e Daisy, in fondo, è una gran stronza. Sarà per questo che il gioco, per qualcuno, stride: Gatsby non è “oltre il tempo”, come Romeo o Christian, anzi, il romanzo di Fitzgerald, dice la critica letteraria, è straordinario proprio per come sa fissare sulla pagina lo spirito del suo tempo. Eppure: la nostalgia, il rimpianto, un passato perduto, una luce verde inafferrabile oltre la baia, l’amarezza della sconfitta, un sogno che svapora a un passo dalla meta… son cose immutabili, trasversali. Luhrmann prende il contesto dei Roaring Twenties, lo passa al frullatore aggiornandolo all’estetica di oggi, ci punta i riflettori negli occhi con la consueta spettacolarizzazione esasperata, quella che mozza il fiato, stupisce, e alla lunga, un po’, nausea. Distilla dalle pagine di Fitzgerald quel filo di nostalgia immortale, lo usa per cucire insieme le scene, ce lo sbandiera, di tanto in tanto, con quel modo candido e barocco che hanno gli adolescenti nei loro momenti migliori. Esercita (al solito) un controllo ferreo su inquadrature e movimenti di macchina, rovescia immaginifiche architetture di cartapesta, e mette in luce molteplici livelli di falsificazione, una società ipocrita a prescindere dall’epoca, una grande illusione costruita su una straripante menzogna, lo sguardo di un Dio cartellone pubblicitario scolorito. Questo Gatsby, è ovvio, è una questione di gusti: ma se tendere la mano nel buio, prima o poi, è capitato a tutti, è giusto che ognuno (anche Luhrmann) possa avere il suo.