Una sconfinata solitudine
Esce nuovamente in sala Beket, anno di produzione 2008, oggetto filmico non identificato che a partire dal Festival di Locarno viaggiò in tutto il mondo fatta eccezione per l’Italia e consacrò Davide Manuli autore di culto per quella fetta di pubblico che abita suo malgrado la sola rete.
A poche settimane dalla distribuzione (si spera più umana) de La leggenda di Kaspar Hauser, Beket appare oggi come il primo capitolo, generosamente sudato e non sempre perfetto, di un dittico compatto e coerente che forse troverà pieno compimento nelle stranianti performance di Vincent Gallo e Silvia Calderoni. Quale territorio visitiamo, di fronte al cinema primordiale e anarchico di Davide Manuli, è cosa difficile a dirsi, anzitutto per la natura sincretica della sua scrittura e messinscena: parola, gesto e immagine attingono simultaneamente alla letteratura, al teatro e al cinema, tenendo Samuel Beckett come faro prioritario (il riferimento diretto è Aspettando Godot, quello implicito Finale di partita), ma aprendosi a connessioni intermittenti con le ricerche di Jean-Luc Godard, Pina Bausch, Carmelo Bene. Girato in Super 16, nel bianco e nero pulsante della Kodak 80 ASA e senza luci artificiali, il film di Manuli procede per inquadrature semplici e rigorose, da cinema purista, materializzando sullo schermo il giro a vuoto di due anime in ricerca e i loro bizzarri incontri nel mezzo di paesaggi incontaminati e pre-umani (Gallura, Cabras, Miniera di Montevecchio, dune di Piscinas in Sardegna; Piana di Castelluccio in Umbria), sempre permeati di malinconico nonsense. Siamo lontani dal cinema italiano, è evidente. Il lavoro di Manuli, fatto di tempi di lavorazione record e troupe ridotte all’osso, non racconta e non rappresenta, ma tenta faticosamente quella strada poco battuta in cui “l’interiorità dell’attore si precipita nell’interiorità dello spettatore” (C. Bene) e la comunicazione lascia direttamente spazio alla sensazione. Scompare il film, né del resto ha ormai più senso tentare di smontarlo grammatica alla mano: proprio come nel diversissimo INLAND EMPIRE di David Lynch, quello che resta, semplice e trascendente, è il cinema che scorre. A condannare inevitabilmente Manuli alla posizione di outsider, specialmente in Italia, è la sua solitudine produttiva, che sottraendolo a regole e sostegni lo priva di quella piena lucidità che anche a Beket manca, e forse La leggenda di Kaspar Hauser invece ha trovato. Cinema di solitudini sconfinate, di dolorosa estraneità all’esistenza, disperatamente bisognoso di essere accolto.
Beket [Id., Italia 2008] REGIA Davide Manuli.
CAST Fabrizio Gifuni, Luciano Curreli, Jérôme Duranteau, Roberto Freak Antoni, Paolo Rossi.
SCENEGGIATURA Davide Manuli. FOTOGRAFIA Tarek Ben Abdallah. MUSICHE Stefano Ianne.
Drammatico, durata 80 minuti.