SPECIALE STEVEN SODERBERGH
Tuttofare
Regista, produttore, sceneggiatore, montatore, cinematographer, tutto… Steven Soderbergh fa dell’eclettismo lavorativo, oltre che stilistico, il proprio brand predominante. Attivo da oltre venticinque anni, precoce vincitore della Palma d’Oro a Cannes, nel 1989 si fa conoscere con un film, Sesso, bugie e videotape, che diviene simbolo di quel riflessivismo postmoderno che faceva spellare le mani alla critica più à la page di allora.
Da qui in poi, una serie di prodotti diversissimi tra loro hanno creato un certo scompiglio. Capace di lavorare sia con grandi produzioni e cast stellari, come Out of Sight, Erin Brockovich, Traffic, Ocean’s Eleven (e seguiti), sia con film più sperimentali, come L’inglese o Bubble, viene visto con sospetto da una comunità cinefila che lo considera un vuoto filibustiere (persino David Lynch se ne fa beffe, ricalcandolo nel personaggio del regista Adam Kesher in Mulholland Drive). In effetti, come non rimanere sospettosi dinanzi agli abborracciati giochini pseudo-intellettuali di Schizopolis e Full Frontal? Come celare lo sgomento di fronte alla pleonastica riduzione del Solaris di Stanislaw Lem? Eppure, da un certo momento in poi, Soderbergh emerge con una serie di pellicole di sorprendente valore. Dopo la curiosa parentesi formalista di Intrigo a Berlino, in cui adopera le medesime attrezzature tecniche degli anni quaranta, costruisce un sorprendente dittico dedicato, nientemeno, che alla figura di Che Guevara. Insieme agiografici e antiretorici, Che – L’argentino e Che – Guerriglia, entrambi del 2008 e scritti da sceneggiatori diversi (e si vede!), rappresentano l’apice stilistico di un regista che riesce a trovare il giusto tono espungendo dal ritratto di un mito tutta la ridondanza del caso.
Da qui, una serie di opere interessantissime compongono l’ultima parte della carriera. Servendosi di ottime sceneggiature, Soderbergh confeziona prodotti di grande fattura e di rilevante importanza politica: dalla tortuosa storia di spionaggio industriale che ragiona sul significato della menzogna in The Informant!, alla sagace riflessione sul capitalismo contemporaneo e suoi riti duri a morire in Magic Mike, passando per l’ottima costruzione, dalla fredda consistenza positivista, di un virus (sociale, politico, economico) che porta il mondo al collasso, in Contagion. Il nuovo Effetti collaterali, arzigogolato e problematico quanti altri mai, continua sulla strada del coriaceo blockbuster intelligente e ben scritto. Ma è proprio il servirsi di sceneggiature altrui a conferire valore alla capacità di Soderbergh di orchestrare progetti ambiziosi: forse l’interesse del suo lavoro sta proprio nella facoltà di captare il peso di un’inquadratura, di mantenere il giusto tono e comprendere l’importanza delle narrazioni forti. Che ciò lo esautori, almeno parzialmente, dai pregi che la critica ha attribuito ai suoi ultimi film? O forse che, al contrario, lo si voglia elevare quale baluardo di una politique des auteurs rivisitata che vede, sempre e comunque, il regista come unico vero artefice del senso dell’opera? O, magari, che non sia il caso di riporre in cantuccio le teorie autoriali e guardare, senza pregiudizi, al singolo film. Ma è forse possibile ciò?