SPECIALE PEDRO ALMODOVAR
Spettri e carne
Tornare, ritornare, ricominciare. Diventare. “Volver” è una di quelle parole malleabili e dense, che mutano col contesto, che accatastano significati. Volver è un film che assomiglia molto alla parola che gli fa da titolo.
Più scarno rispetto al primo cinema di Almodóvar, Volver è secco, brusco e volitivo come la sua protagonista Raimunda, e probabilmente come la Mancha in cui è in gran parte ambientato. Colpisce per l’esclusività femminile – traccia tipica del cinema almodovariano, ma che qui si fa essenziale, inevitabile: gli uomini portano solo guai, come al solito, ma vengono relegati senza troppe ansie fuori schermo, fuori campo, dall’altra parte di un telefono o di un bancone, dentro un frigorifero, in una tomba morbida sulle rive del lago. Come dire: sì, d’accordo, ma adesso ho da fare le cose davvero importanti. L’universo femminile segue una discendenza tutta matriarcale, avvicinando nonne e nipoti e componendo un microcosmo autosufficiente, una sorellanza intergenerazionale fatta di vicine disponibili e di un parentado trasversale, reale o acquisito. Un macrocosmo parallelo che si regge su rituali quotidiani, dove lavare i piatti, pulire una tomba, colorare i capelli sono gesti potenti, capaci di scatenare evocazioni ancestrali. Un flusso dove vita e morte non sono misteri, né timori, ma occorrenze pratiche, parte di un tutto spazzato da un vento (che, a non starci attenti, “volver loco”, rende pazzi). Almodóvar asciuga il melodramma dalle scene madri, dispiega un susseguirsi incessante di incesti, parricidi, resurrezioni e agnizioni, declinandolo al ritmo malinconico del flamenco (la canzone di Raimunda, il cui testo riassume in sé tutti i significati del racconto proprio come il titolo del film, chiama lacrime di emozione identiche negli occhi della figlia, della madre, dello spettatore) e della nostalgia dolcissima di un ritorno a casa. La narrazione rotola via, macchiata insistentemente di realismo magico, quello per cui i fantasmi sono materici, si nascondono sotto i letti, dentro i bagagliai, guardano Visconti (e se stessi) alla tv e inorridiscono davanti alla disumanità inaffrontabile di un protoreality show senza vergogna. Il mondo narrativo del regista spagnolo è un contrappunto di colori accesi (soprattutto, il suo rosso inconfondibile) e di un cinema vivo e onnipresente, che si sostanzia nell’identità tra Penélope Cruz e Sophia Loren, nella riproposizione degli ormai definiti topoi almodovariani, nel rimasticamento dei generi (per esempio, i rimandi hitchcockiani nelle sequenze dell’omicidio di Paco). Un continuo volver, tornare, ritornare, ricominciare, diventare. Spettri e carne, e vento della Mancha.
Volver – Tornare [Volver, Spagna 2006] REGIA Pedro Almodóvar.
CAST Penélope Cruz, Carmen Maura, Lola Duenas, Blanca Portillo.
SCENEGGIATURA Pedro Almodóvar. FOTOGRAFIA José Luis Alcaine. MUSICHE Alberto Iglesias.
Drammatico, durata 121 minuti.