Alzi la mano chi non ha mai tentato di salvare la Principessa Peach o Zelda passando ore ed ore attaccato a una console. E che dire della ricerca della principessa rapita dal malvagio visir all’inizio di Prince of Persia? L’elemento a cui probabilmente nessuno di noi in tenera età aveva fatto caso, tuttavia, è che il rapimento della “povera principessa” dava il via alla maggior parte dei nostri amati videogiochi.
E’ questo il tema del primo video della serie Tropes vs. Women in Video Games, realizzato da Anita Sarkeesian, in arte Feminist Frequency, e dedicato al più pernicioso e persistente trope mediale sessista, la “damsel in distress” – la damigella in pericolo. Il video, pubblicato all’inizio di marzo, ci fa scoprire, o ricordare, che non solo la maggior parte dei giochi iniziava con la “poveretta di turno” rapita da bruti, con forze più o meno magiche, ma anche che raramente tali personaggi erano “giocabili” dall’utente. La serie si pone come obiettivo l’analisi e la decostruzione dei tropes sessisti più diffusi nella storia dei videogiochi, sul modello della precedente Tropes vs. Women, realizzata da Sarkeesian nel 2011 in collaborazione con la celebre rivista femminista Bitch Magazine, incentrata, invece, su film e serie televisive. Pur avendo raggiunto ormai una certa popolarità – il blog Feminist Frequency – Conversations with pop culture è attivo dal 2009 – l’attenzione suscitata da quest’ultima serie ha superato ogni aspettativa, purtroppo non in senso positivo. Per finanziare il suo progetto, Sarkeesian decide, nel maggio 2012, di avviare una campagna sul celebre portale Kickstarter (campagna che frutta, grazie a circa 7000 sostenitori, più di 150.000$) e realizza un video promozionale. Chiunque si occupi di tematiche femministe o gender-related sul web conosce bene le pratiche di trolling ed è abituato a commenti sprezzanti, video segnalati, mail di offese. Tuttavia, la campagna di molestie e attacchi personali organizzata da alcuni forum di videogiocatori nei confronti di Sarkeesian va oltre l’immaginazione più fervida. Il video promozionale riceve su YouTube circa 14.000 commenti – prima della chiusura per ovvi motivi – tra i più “teneri” (e i pochi ripetibili): “I hate ovaries big enough to post videos”, “She is a JEW” e il grande classico “I hope you get cancer”. La sua pagina di Wikipedia viene vandalizzata per giorni con link pornografici. Il suo sito subisce vari tentativi di hacking, alcuni riusciti. E a questo vanno aggiunte le manipolazioni di immagini fatte circolare sui social media, i disegni pornografici e le minacce di stupro recapitati via mail, la diffusione online dei suoi contatti personali, compresi numero di telefono e indirizzo privato e, infine, un videogioco online il cui titolo Beat Up Anita Sarkeesian risulta abbastanza eloquente. Sarkeesian ha rilasciato svariate interviste a quotidiani, riviste e siti web, e molti hanno scritto in sua difesa: sistematicamente ogni post o video è stato accompagnato da una selva di commenti e insulti. L’intera vicenda è stata recentemente ricostruita da Sarkeesian durante una delle note TEDxWomen talk. Se mai vi fosse stata la necessità di trovare una ragione per il lavoro di Sarkeesian sul sessismo nei media contemporanei, questa incredibile vicenda rende l’importanza del suo lavoro auto-evidente.