SPECIALE INEDITI
Filmare per resistere
Le “5 videocamere” sono quelle distrutte sotto i colpi di Israele. Qualcosa di più di un simbolico memento. Una dopo l’altra accompagnano Emad Burnat nella quotidianità di una sfibrante resistenza. Riprendono la barriera eretta a confine, l’avanzare dell’occupazione, le procedure illecite degli israeliani per erodere metri di terreno edificabile. Dal 2005 al 2010 documentano fedelmente la sproporzione di una lotta impari, tra i contadini della Cisgiordania e l’esercito di Tel-Aviv.
Vincitore al Sundance 2012 e nominato agli Academy Awards come miglior documentario, Five Broken Cameras lascia impietriti. L’abitudine a scorgere la morte nei ritagli di un telegiornale non prepara affatto a guardarla davvero, restituita al suo contesto. Quando Emad inizia a filmare, accade quasi per caso. Come chiunque, con una videocamera, tende a riprendere la propria vita, i volti e i gesti che la compongono. Più passa il tempo più quello sguardo si fa consapevole e l’istinto di documentare diventa senso di protezione, scelta eversiva di muta denuncia. Quei volti familiari sono gli stessi che, a poco a poco, scompaiono dal film. Ma non prima che la videocamera ci abbia mostrato come. Negli scontri quotidiani con i soldati, l’arresto e la morte ritornano implacabilmente. La videocamera si trasforma per Emad in estensione fisica e imprescindibile, che non solo registra e resiste, ma persino lo salva intercettando un proiettile destinato a colpirlo. Immagini di intimità domestica e familiare si alternano e fondono con le rappresaglie, i candelotti di gas, il sangue sui corpi, nel montaggio dell’israeliano Guy Davidi che ha aiutato Emad nella realizzazione. Ma anche con i colori nazionali sventolati nelle dimostrazioni del villaggio, e gli olivi incendiati durante la notte dai roghi impietosi dei soldati. Scorci dolorosi di Palestina, di una terra brulla e apparentemente ostile, eppure contesa a costo della vita. Una terra che, come spiega il regista, “più che nutrirci ci tiene uniti”. Finché, per cinque volte nel corso del film, la visione si fa confusa, traballa e si arresta. E una didascalia dichiara gli estremi della videocamera, del suo periodo di attività prima che un’altra prenda il suo posto. Anche Emad viene colpito, gravemente ferito dal fuoco nemico. Ma l’occhio della videocamera continua a filmare. Alla fine, ci dice Emad, filmare significa guarire e guarire equivale a resistere. Necessità e dovere al tempo stesso. Guarire, anzi, è “l’unico dovere di una vittima. Guarendo, si resiste all’oppressione.”
5 Broken Cameras [Id., Palestina/Israele 2011] REGIA Emad Burnat, Guy Davidi.
FOTOGRAFIA Emad Burnat. MONTAGGIO Véronique Lagoarde–Ségot, Guy Davidi. MUSICHE Le Trio Jubran.
Documentario, 90 minuti.