Hollywood prom
Vai a dormire alle dieci, metti la sveglia alle due, ti riaddormenti alle sei. Ogni anno la stessa storia, una tortura autoimposta, una scintilla insondabile che ti fa credere sia una buona idea bruciare una notte insonne a guardare gli Oscar.
Eppure, c’è chi lo fa per il calcio, chi per la formula uno. Il tuo preferito non vince (quasi) mai, ma poche cose sanno eguagliare il fremito della gara. E la sensazione straniante di guardare una platea di divi seduta lì, dove di solito stiamo noi: tra il pubblico. Quelli che hanno il cuore soffice, si inteneriscono per gli illustri sconosciuti (tipo, che so, i vincitori del Miglior Corto Documentario) che sembrano capitare per caso sotto i riflettori dell’Academy, davanti a milioni di telespettatori mondiali. Qualcun altro aspetta dichiaratamente le lacrime, il discorso sorprendente, la battuta cattiva, la caduta dalle scale (spoiler: quest’anno abbiamo fatto l’en plein) e affronta impavido tre ore e mezza di semitorpore sperando in una ricompensa. Altri ancora, si siedono sulle poltrone del Kodak Theater (o davanti alla Tv, a un sito di streaming) per assistere a rassicuranti meta-narrazioni hollywoodiane, costruite sulle regole ferree ed efficaci del cinema mainstream. La notte degli Oscar è come il prom finale di tanti teen drama, dove siamo felici di veder incoronata reginetta la ragazzaccia della scuola (vedi alla voce Jennifer Lawrence). E il trionfo di Ben Affleck, forse, più che l’autocelebrazione del sistema Hollywood, rivela la passione condivisa per le vicende che concedono una seconda chance. L’adrenalina da competizione resta un brivido impigliato tra l’apertura della busta e la pronuncia di un nome: quest’anno, i video e i poster promozionali rilasciati in occasione dell’85esimo compleanno degli Academy Award hanno sottolineato impietosi l’irrilevanza dei premi, illuminando per contrasto il fuoricampo degli esclusi illustri. E in una cerimonia che, più di altre volte, ha spalmato equamente i suoi ometti dorati su candidati diversi, il nostro preferito (oltre a un sornione Daniel Day Lewis, che cazzeggia con Meryl Streep fintamente emozionato) è ancora Quentin Tarantino che, stringendo la sua seconda statuetta per la Sceneggiatura Originale (come regista ancora niente), fa un elogio agli scrittori di storie e saluta Leonardo DiCaprio. Assente (in)giustificato, protagonista di un racconto transmediale che lo vuole eterno sconfitto, nonostante l’evidenza di grande interprete. Anche noi, impegnati freneticamente a twittare, commentare, ribloggare, ci improvvisiamo attori di performance più o meno riuscite: fuori dal Kodak Theater, ma protagonisti della stessa macro-narrazione globale, affamati, mai sazi, d’immaginario.