Castelli di carte
Gli edifici, nei film di Fincher, sono sempre importanti. Dalla biblioteca di Seven ai grattacieli implosi di Fight Club, fino alle traiettorie algide e sottilmente sinistre di The Social Network e Millennium. Uomini che odiano le donne.
La sigla di House of Cards ci restituisce per 13 episodi una Washington di palazzi, strade e monumenti, inamovibili e incombenti mentre attorno tutto scorre, veloce ed elettrico, come l’acqua. Ogni personaggio è imprigionato nel suo ambiente, ci vive in simbiotica opposizione. Il protagonista Frank Underwood sa di mogano e tappeti persiani, suadente ed infido come le stanze del potere in cui si muove, e poi si rifugia nella sua cantina – o nel localaccio angusto in cui ama abbuffarsi di costine barbecue – per complottare e allenarsi alla vogata finale. Sua moglie Claire è elegante e raffinata come l’architettura pulita degli uffici dove conduce un’attività benefica dalle cifre spropositate e dai mezzi spesso malleabili, e poi fugge nel loft finto trasandato del suo amante fotografo inglese. Zoe Barnes, reporter ambiziosa e con ben pochi scrupoli, abita un appartamento sporco, moquette macchiata e un’invasione d’insetti. Il deputato Peter Russo ha un alloggio high tech, freddo e grigio come il marmo, e come il futuro spietato che lo attende. La storia, scritta da Beau Willimon (autore della pièce Farragut North e della sceneggiatura che ne è stata tratta, Le Idi di marzo), echeggia volutamente Shakespeare (Enrico III, soprattutto, ma anche Macbeth) mentre muove le pedine della partita a scacchi orchestrata da Frank Underwood (un gigionissimo Kevin Spacey, che ostenta anche un credibile, appiccicoso e languido accento del Sud) per prendersi il Potere, senza fare prigionieri. La serie è la prima prodotta interamente da Netflix, colosso statunitense dell’home video e dello streaming on demand, che, rilasciando sul sito, per i suoi abbonati, tutta la prima stagione in una botta sola, sfida il nostro modo di utilizzare gli aggettivi “televisivo” e “seriale”. Fincher fa da produttore esecutivo (insieme a Spacey stesso) e dirige i primi due capitoli impostando una direzione, soprattutto stilistica, in linea con la sua filmografia (soprattutto con gli ultimi due lavori), indicando una marcescenza evidente proprio laddove le superfici si mostrano più levigate. Eppure, House of Cards non è un lungo film in tredici parti, ma mantiene una salda conoscenza della narrativa televisiva: si prende i suoi tempi e regala anche episodi d’approfondimento e di pausa (quelli che, se fossimo in Tv, definiremmo “filler”, riempitivi, e che in effetti riempiono di dettagli l’intimità dai personaggi, e di senso le loro azioni). La meschinità irredimibile di Frank ci affascina e ci distanzia, esattamente come il suo rapporto con Claire (Robin Wright, responsabile di un’interpretazione straordinaria), autenticamente complice (almeno all’inizio) e refrattario a ogni regola del (melo)dramma familiare. Incorniciati da una finestra, mentre fumano insieme l’unica rituale sigaretta della giornata, guardano fuori da una casa talmente perfetta da sembrare disabitata. Noi li guardiamo a nostra volta, ammirati per la loro machiavellica sete di potere, e per l’ottimo esordio di una “rete” che forse, fra qualche anno, saprà sopravanzare la Hbo.
House of Cards [Id., USA 2013] CREATA da Beau Willimon a partire dal romanzo di Micheal Dobbs e dall’omonima serie Bbc
CAST Kevin Spacey, Robin Wright, Kate Mara, Corey Stoll, Micheal Kelly, Sakina Jaffrey, Kristen Connolly
Political drama, durata 50 minuti (episodio), stagione 1