American schizophrenia
A tre anni di distanza dall’enorme successo di Precious, Lee Daniels realizza The Paperboy, adattamento dell’omonimo romanzo del 1995 di Peter Dexter tradotto come Un affare di famiglia. Il film – in concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes – arriva in Italia in DVD, colmando così il vuoto lasciato dalla distribuzione in sala.
Forte di uno stile crudo e incisivo, che non risparmia violenza pur non esibendola in maniera compiaciuta, e di un coraggio non indifferente nel raccontare storie scomode, Daniels si conferma come uno dei registi più interessanti nel panorama contemporaneo. Nero e omosessuale, conosce bene le discriminazioni presenti nel suo Paese ed è attraverso il cinema che porta avanti una denuncia verso di queste. Più che offrirne consolatorie e assolutorie interpretazioni, mosso dall’indignazione per lo stato delle cose preferisce – come il suo predecessore Spike Lee – rappresentarle come segni inconfondibili di una realtà troppo spesso sottovalutata o volutamente ignorata dai più. Se con il film precedente il regista guardava al presente di una ragazza povera ed emarginata che dopo abusi e sofferenze trova nello studio il suo riscatto, con The Paperboy l’attenzione si sposta sul passato, al 1969 quando – abolita ogni forma di distinzione razziale – l’America stava rapidamente cambiando, scontrandosi però con gli atteggiamenti retrogradi ormai consolidati nel tessuto civile. In questo periodo si svolge la vicenda di Van Wetter, accusato senza prove evidenti di omicidio e per questo condannato alla pena di morte, causa che suscita l’interesse della stampa nazionale e in particolare dell’ambizioso Acheman e dell’idealista Jansen, uno nero, l’altro bianco, entrambi in cerca dello scoop che scagioni l’uomo e dimostri l’inutilità della pena capitale. Con l’aiuto del giovane fratello di Jansen e della prostituta compagna del condannato, i due cominciano a indagare sulla verità e su se stessi, sullo sfondo di un’ancora difficoltosa convivenza tra bianchi e neri nella profonda provincia della Florida. Quello che preme a Daniels non è tanto la questione razziale – pur presente nel film, rappresentata in maniera matura da una serie di relazioni positive e negative che ne mettono in luce vari aspetti e sfumature – quanto piuttosto il ritratto di una società che, oggi come allora, fatica a conciliare i diversi e spesso opposti tratti che la contraddistinguono e che vengono a costituirne l’essenza schizofrenica. A livello collettivo, se il Paese stava progredendo sul piano dell’integrazione tra razze, si trovava ancora a sostenere la legittimità di una pena capitale; allo stesso modo, a livello individuale, i vari personaggi convivono con un’identità altra con cui ognuno si troverà a dover fare i conti, nel bene e nel male. Così anche per gli attori che, ribaltati i soliti ruoli relativi, vengono a incarnare figure tendenzialmente opposte alle rispettive immagini divistiche, tra tutti McConaughey che, smessi i panni del bel palestrato, conferma l’inattesa versatilità recitativa di Killer Joe. È dunque l’altra faccia dell’America, quella più oscura e controversa che il regista vuole raccontare, cercando di suscitare nel pubblico una reazione che avvii una presa di coscienza su questioni annose e delicate, primo passo indispensabile per il progresso comunitario. Chapeau.
The Paperboy [id., USA 2012] REGIA Lee Daniels.
CAST Matthew McConaughey, Nicole Kidman, John Cusack, Zac Efron, Macy Gray.
SCENEGGIATURA Lee Daniels, Peter Dexter (autore dell’omonimo romanzo). FOTOGRAFIA Roberto Schaefer. MUSICHE Mario Grigorov.
Drammatico, durata 107 minuti.