SPECIALE GUS VAN SANT
Shooting Columbine
Fotografare, filmare, sparare in inglese si dice allo stesso modo: to shoot. Come accade quasi sempre, è il contesto a spuntare le differenze e ad assegnare significati. Ma cosa succede quando il contesto svapora agli angoli sfocati di un’inquadratura ultra ravvicinata?
Nel giro di due anni, tra il 2002 e il 2003, due pellicole raccontano la strage del liceo di Columbine, trauma marcescente di sociologia e immaginario, riaperto e tormentato a ogni sparatoria scolastica americana. Bowling a Columbine di Micheal Moore si finge documentario per impilare tesi e controtesi obbligate, per riferire una versione della storia densa di certezze. Elephant di Gus Van Sant rimesta in un reale baziniano, fatto di aderenza, in piani sequenza, alle unità di tempo e luogo. Ci aggiunge il pedinamento zavattiniano, l’ausilio di attori/studenti non professionisti, corridoi veri di una scuola vera, in tutta la sua squallida banalità quotidiana. Eppure, poi si mette a lavorare d’accumulo e di scomposizione, di cronologie ripetute e sequenze rallentate. Una frammentazione di prospettive (che ricorda tanto cinema post 9/11 di nastri riavvolti e di immagini rubate e setacciate in cerca di un senso) che, solo all’apparenza, tenta di fotografare un pachiderma troppo grosso per stare in un solo scatto. Nel ripercorrere traiettorie e situazioni, incollandosi alla nuca di un manipolo di studenti dentro un labirinto livido di aule androni biblioteche cortili, la macchina da presa sembra in affannata ricerca del momento rivelatore, l’istante che riesca a spiegare, ad attribuire significati, ad architettare contesti. Invece, per quasi tutto il film, non succede niente: un cicaleccio costante e ordinario, che confonde bullismi e bulimie, sbruffonate e primi amori, crisi adolescenziali e genitorialità invisibili, annullando la distanza tra fotografare filmare sparare in una superficie rarefatta e indistinta, sfocata ai bordi. I ragazzi sono spiriti già morti, imprigionati per l’eternità dentro le ultime tragiche ore di una normalità spenta e desolante, e pure le spiegazioni parasociologiche che qualche critico ha voluto individuare sono talmente ridondanti da spegnersi dentro l’indefinito brusio di fondo. Il finale esplode e colpisce improvviso come un proiettile sparato da una fotocamera. La tensione emersa progressivamente dai dettagli narrativi si risveglia comunque di sorpresa; l’angoscia esistenziale di adolescenze sospese e spettrali (verrebbe da dire “piatte”, ma sarebbe una semplificazione), invece, si aggrappa con tenacia alle nostre nuche, alle nostre schiene.
Elephant [Id., USA 2003] REGIA Gus Van Sant.
CAST Alex Frost, Eric Deulen, Elias McConnell, Carrie Finklea, Jordan Taylor.
SCENEGGIATURA Gus Van Sant. FOTOGRAFIA Harris Savides. MONTAGGIO Gus Van Sant.
Drammatico, durata 81 minuti.