River to River – Florence Indian Film Festival, 7-13 dicembre 2012, Firenze
Mr. Everlasting Light
L’11 ottobre di 70 anni fa nasceva Amitabh Bachchan: quest’anno il River to River ha deciso di dedicare all’attore la sua retrospettiva, divenendo così la prima manifestazione italiana a potersi vantare della presenza del divo, cui sono state consegnate le chiavi della città di Firenze.
Per chi non conosce Bachchan è difficile concepire la vera e propria devozione di cui può godere una persona: egli è l’emblema stesso di Bollywood e del cinema indiano, incarnando prima l’ideale del giovane ferito e arrabbiato, e poi dell’anziano-guida, mai tralasciando ruoli comici. I film inclusi nella breve ma intensa retrospettiva sono: Sholay, il curry western per antonomasia, e Deewaar, con cui si è omaggiato Yash Chopra, recentemente scomparso, entrambi del 1975. Alla presenza dell’attore, è stato proiettato Black di Sanjay Leela Bansali, del 2005, in cui Big B crea una delle performance migliori della sua carriera. Come corollario ai lungometraggi, è stato presentato un documentario con interviste e immagini da molti degli oltre 180 film cui il divo ha preso parte, intitolato proprio con la traduzione del suo nome: Everlasting Light. Per motivi di tempistica è quasi impossibile rendere giustizia a Bachchan in maniera consona alla carriera e al seguito di fan. Bastano questi pochi film però a ricordarci (ancora) del gap, almeno informativo, che divide la cinematografia indiana da quella occidentale, quasi come se la nostra cultura sentisse il bisogno di proteggersi dal successo di texture e vicende nuove. Non è una novità infatti che la qualità dell’atmosfera e della grana stessa dei film provenienti da Paesi come l’India superi in molti casi (anche per questioni di budget e mezzi) la retorica hollywoodiana, con cui Bachchan tra l’altro ha più volte lavorato. La figura attoriale che emerge dai film e quella umana che traspare dalla sua fisicità è una versione statuaria di un imponente diario del cinema indiano. I segni dei successi e dei fallimenti sembrano impressi sulla pelle di quest’uomo dalla voce profonda e dalla stretta di mano importante. Un monumento vivente alla storia del cinema, che non perde mordente, conservando la stessa intensità delle farse di Amar Akbar Anthony. Per verificare, basti mettere a confronto le interpretazioni di Don (1978, altro apice della carriera di Bachchan) e Sarkar (2005, versione indiana del “nostro” Il Padrino).