ANTEPRIMA
Negli occhi del serial killer
New York è la città che non dorme mai. Le sue contraddizioni, mascherate da una facciata luccicante di vetrine e insegne al neon, proseguono lungo la notte tra i vicoli bui avvolti dal fumo dei tombini.
L’asfalto bagnato della metropoli borderline è stato cinematograficamente setacciato da guidatori solitari – da De Niro in Taxi driver al più recente Ryan Gosling in Drive – giustizieri che con i loro fari illuminavano gli aspetti di una realtà invisibile alla luce del sole. Se però a percorrere quelle strade è un psicopatico maniaco sessuale (anche Travis Bickle in effetti lo era) ma per di più omicida, e il punto d’osservazione del protagonista e della cinepresa coincidono, ecco che l’iperrealismo urbano raggiunge vette d’assoluto fascino. Maniac, presentato all’interno della malatissima sezione “Rapporto Confidenziale” all’ultimo Torino Film Festival, è il remake dell’omonimo slasher movie di culto targato anni ’80, girato in soggettiva. La trama riconduce l’origine scatenante del “complicato” rapporto di Frankie con le donne ovviamente ad una natura edipica e ad una madre dai facili costumi, sbadata nel dedicarsi al contorsionismo di gruppo alla presenza del figlioletto. Che riporterà a galla qualche trauma. Tant’è che difatti da grande a tutte coloro per cui proverà un’attrazione farà lo scalpo e lo appenderà indosso a dei manichini: immobili, silenziosi, fedeli; scudo plastico alla crudeltà dell’universo femminile (e soluzione ben più igienica rispetto ai metodi di conservazione adottati dal collega Norman Bates). Ma il punto di forza del film è per l’appunto la prospettiva messa a servizio della tematica trattata. Gli occhi stroboscopici del personaggio interpretato da Elijah Wood si affacciano sulle superfici riflesse, dallo specchietto retrovisore o da una sporadica proiezione mentale, ma per il resto si muovono in sincrono con noi. Ne avvertiamo la pulsazione, il livello d’eccitazione; l’intensità vibrante dell’inquadratura segue l’affannarsi del respiro e siamo in grado di prevedere con quanta ferocia egli colpirà. E noi con lui. Possiamo nasconderci dietro la colonna di un edificio, provare il brivido di pedinare una giovane vittima in preda al terrore, e poi afferrarla, trascinarla per terra, stringerne tra le mani l’esile collo e osservarla mentre le sue pupille bagnate di calde lacrime implorano pietà. Non siamo costruttori della storia, è vero, ma corriamo ugualmente dentro un videogame scorrettissimo, simile a quelli reperiti sottobanco perché banditi dal mercato. E’ la violenza videoludica, canale artificiale degli istinti repressi dalle sovrastrutture. Che provenga dal cinema, impugnando un joystick o da un ottimo ibrido come Maniac, è una delle valvole di sfogo irrinunciabili dell’adrenalina. Con buona pace dei censori.
Maniac [Id., USA 2012] REGIA Franck Khalfoun.
CAST Elijah Wood, America Olivo, Nora Arnezeder, Morgane Slemp.
SCENEGGIATURA Alexandre Aja, Grégory Levasseur, C.A. Rosenberg. FOTOGRAFIA Maxime Alexandre. MUSICHE Raphaël Hamburger.
Horror/Thriller, durata 93 minuti.