Cambiamenti, trasformazioni, metamorfosi. Il TFF 2012 ha raccontato mondi e umanità alla costante ricerca di un rinnovamento esistenziale, di una mutazione come unica arma per poter guardare avanti. Il trasformismo è la chiave con cui Leos Carax apre la porta che ci guida verso la sala in cui viene trasmesso Holy Motors, il titolo più discusso e (in)discutibile, visto o rivisto, dopo Cannes e Locarno, nelle giornate torinesi.
Il film e il suo protagonista, in grado di ritrovare se stesso soltanto tra un travestimento e l’altro, sono la puntuale sineddoche di una kermesse dall’esistenza sempre più incisiva che, come nessun’altra in Italia, spazia su piani differenti, tra ostiche pellicole d’autore e divertenti film di genere, tra esordi coraggiosi e opere mature, facendo dimenticare se la prossima proiezione sarà una prima mondiale o un titolo già proposto in altri festival stranieri. Torino ha la forza di cambiare, si evolve nel tempo nel tentativo (riuscito) di migliorarsi di anno in anno, senza mai rimanere uguale a se stessa. Esattamente come molti dei titoli selezionati. Non è forse un caso che la scelta del film d’apertura sia caduta su Quartet, il delizioso esordio alla regia di Dustin Hoffman, pronto a 75 anni ad avviare una brillante carriera dietro la macchina da presa dopo i tanti successi raggiunti davanti all’obiettivo. Metamorfosi d’autore drastica è quella di Sion Sono che, dopo il disastro di Fukushima, è passato dagli horror-melò alle riflessioni sociali di Himizu (2011) e di The Land of Hope, opera tra le più toccanti viste sotto la Mole, che racconta proprio di cambiamenti esistenziali dopo un incidente nucleare. Oppure György Pálfi, impossibilitato a girare nuove pellicole per mancanza di finanziamenti, che riprende in Final Cut le love story più belle della storia del cinema, fondendole in un curioso esperimento. La ricerca di una nuova identità ha caratterizzato anche buona parte del concorso: da Arthur Newman di Dante Ariola al vincitore Shell di Scott Graham, il sogno è sempre quello di cambiare la propria vita. Le trasformazioni a volte sono volute (in Nameless Gangster di Yun Jong-bin un doganiere trova un carico di eroina e inizia una nuova esistenza nella malavita), altre volte sono forzate (Heidi-Sheri Moon, da dj a madre dell’anticristo, nel maestoso The Lords of Salem di Rob Zombie), altre ancora persino necessarie (la speranza della fine della dittatura cilena in No di Pablo Larraín), ma certamente sembrano l’unico modo per superare le crisi con cui siamo costretti a fare i conti. Eppure la mutazione più inquietante e struggente che Torino ha mostrato è quella di un personaggio realmente esistito: Yukio Mishima, il cui impeto nazionalistico, in 11.25 The Day He Chose His Own Fate di Koji Wakamatsu, prende il sopravvento sulla sua poetica. Una visione sconvolgente, l’ultimo testamento di un autore che ha sempre portato, in embrione, il germe di una metamorfosi cinematografica avvenuta di film in film.