Dunque, vediamo. A inizio settembre Venezia, a ottobre Mantova e Pordenone, a novembre Roma e Torino, a dicembre Filmaker a Milano, Fantascienza a Trieste e Noir a Courmayeur, senza parlare dei Popoli di Firenze e di tutte le manifestazioni fiorentine dei 50 giorni di cinema internazionale, ecc. ecc.
Quest’anno mi sono trovato (e mi troverò) a frequentare la maggior parte delle manifestazioni sopra elencate, sia pure per pochi giorni. Ci sono stato talvolta come critico, più spesso come ospite istituzionale (collaboratore del catalogo a Torino, in futuro chairman di tavola rotonda a Trieste e ospite di dibattito a Milano), altre volte come osservatore per i festival dove siedo come consulente o coordinatore (Film Forum, Cinema Ritrovato, Premio Amidei in ordine di calendario).
Bene, a questo punto il solito polemista potrebbe chiedermi: ti è servito? Risposta: sì. Ma se insistesse: a che cosa servono i festival?, allora la risposta diverrebbe e parecchio più problematica. A cominciare dal fatto che ciascuno pensa di avere una propria necessità in più degli altri. Bastano le dichiarazioni pubbliche per capire che la reggenza Barbera a Venezia si è posta a dir poco in discontinuità con quella di Muller. Il quale però ha concepito Roma come una risposta polemica con Venezia e ne ha fatto un festival quasi estremista, quasi “contro” l’idea di festa cittadina della Detassis. La quale però è subito passata dalla parte del torto scrivendo un pezzo di commento contro Roma sull’Huffington Post a poche ore dalla fine della manifestazione, con sorprendente mancanza di tatto. Ma poi Amelio è arrabbiato con Roma, perché ha rubato le date – epperò pochi sottolineano che Barbera dirige un festival (Venezia) e ne presiede un altro (Torino) con preoccupante manovra a tenaglia proprio su Roma, che avrebbe buone ragioni stavolta per sentirsi vittima. E il festival dei Popoli, vaso di coccio, segnala di essere rimasto spiaccicato da Roma, dove peraltro siedono selezionatori che a Firenze hanno dato molto.
Il problema, forse, è un altro. Tra settembre e metà dicembre ci sono circa 14 settimane. Non penso si possano trovare grandi soluzioni se non un sistema generale nel quale tutti, da buoni fratelli, si spartiscono il calendario. Cosa che appare francamente poco credibile. Il fatto è che quasi tutti quelli che rivendicano le loro ragioni, hanno qualche torto. O il contrario, fate voi. Non essendo ancora chiaro quale sia il modo per valutare un festival (anzianità? qualità media? ricaduta sull’indotto? strutture permanenti?), e dunque per assegnare fondi in maniera intelligente, ci permettiamo di proporre una soluzione comune: la riduzione della durata. Il mondo cambia, la società si modifica e si parcellizza, i media mettono a disposizione sempre più contenuti… come è possibile concepire ancora manifestazioni di 9-11 giorni? Se i festival durassero tutti – come già alcuni, i più piccoli – 5 o 6 giorni, dal martedì/mercoledì alla domenica le cose sarebbero un po’ più semplici, le spese verrebbero ridotte, e tutto assumerebbe i ritmi di una vita, quella professionale e privata di tutti noi, più consoni. D’altra parte, i tre festival in cui lavoro durano tutti da 7 giorni in su. E dunque, meglio che taccia. Per il momento.