Festival Internazionale del Film di Roma, 9-17 novembre 2012, Roma
Roma, un bilancio
Sabato si è conclusa la settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma con un bilancio, stando a ciò che ha scritto la maggioranza della stampa, deludente. Il luna park capitolino del cinema, negli anni precedenti occasione per portare nell’Urbe grandi star, oltre che ennesimo pretesto per attirare turisti, quest’anno è parso un po’ meno attraente, con la latitanza di grandi nomi e un’atmosfera meno brillante.
L’era Muller è iniziata, perlomeno da questo punto di vista, con un mezzo passo falso, cosa che da alcuni potrebbe essere vista con soddisfazione come meritato contrappunto per l’arrogante sicumera, la mancanza di coerenza nei giudizi dati al Festival di Roma nel corso del tempo e la protervia nei confronti di Torino che Muller ha più volte mostrato. Scaricare però, come ha fatto qualcuno, tutta la responsabilità della scarsa riuscita della kermesse sulle sue spalle è limitativo: nei suoi confronti conviene forse spezzare anche qualche lancia, senza dimenticare le legittime accuse di cui sopra. L’ex direttore artistico di Locarno e Venezia ha cercato di dare alla manifestazione una sostanza più da festival tradizionale e meno da festa di grande attrattiva ma poca sostanza; il tentativo è sembrato quello di essere più aderenti allo stato del cinema e dare un contributo alla ricerca in questo senso, con uno sguardo il più possibile variegato. Perciò, meno anteprime (un po’ per scelta un po’ per necessità), pochi autori affermati e spazio a prodotti più di nicchia. Questo obiettivo è stato cercato anche creando Prospettive Italia, sorta di corrispettivo del Controcampo veneziano, e rafforzando la sezione Cinemaxxi dedicata alle opere più sperimentali e vicine alla videoarte. Queste le intenzioni, in fin dei conti però poco rispettate dai risultati finali. Il successo è stato scarso perchè il pubblico tipico del Festival di Roma è perlopiù interessato alle grandi anteprime che ad un festival di “ricerca”, e la nuova strada intrapresa sembra quindi portare lontano dal brand tradizionale della kermesse capitolina. Infine, il livello medio dei film non è stato soddisfacente: pochi veramente meritevoli (Main dans la main di Valérie Donzelli, A glimpse inside the mind of Charles Swan III di Roman Coppola e in parte Motel Life dei fratelli Polsky per quanto riguarda il concorso), qualche robusta ma non eccelsa opera di genere (Il cecchino di Michele Placido e Populaire di Régis Roinsard, entrambi fuori concorso), una serie di prodotti curiosi e interessanti ma troppo concentrati sulla sperimentazione e la stravaganza (Ixjana dei fratelli Skolimowski e Eterno ritorno: provini di Kira Muratowa) fino ad arrivare ad un paio di esempi di fastidioso e spocchioso autorialismo (E la chiamano Estate di Paolo Franchi e Un enfant de toi di Jacques Doillon). La strada intrapresa da Muller si preannuncia quindi lunga e irta di difficoltà, e i primi passi sono stati claudicanti. Riconoscendogli le sue colpe, è opportuno però riconoscergli anche la volontà di volere creare qualcosa di diverso e di più sostanzioso di un’elegante festa mondana.