Un giorno ci chiediamo se abbiamo davvero voglia di guardare l’ultimo episodio di True Blood, il giorno dopo ricomincia qualsiasi cosa, partono le nuove serie, i palinsesti americani (quelli che ci interessano davvero) si riempiono e noi siamo improvvisamente investiti da cicloni di novità televisive assolutamente incompatibili con lavoro e vita sociale.
È iniziata quella che le persone come me, i miei “colleghi” di Serialmente e i numerosi spettatori di serialità televisiva, chiamiamo “la stagione”: c’è chi definisce così la raccolta dei pomodori, chi scandisce gli anni a seconda di quando comincia la scuola e chi aspetta la mezzanotte del 31 dicembre. Noi iniziamo l’anno nuovo tra settembre e ottobre, quando ripartono le nostre serie preferite. E se faticate a considerarlo valido come rito di passaggio limitatevi a sapere questo: è un fottuto Vietnam. Solo un paio di anni fa si definiva il decennio che stiamo vivendo come l’età dell’oro della televisione. Si parlava, manco a dirlo, di quella narrativa seriale che ha arricchito i nostri schermi, della sua realizzazione piena e matura: finalmente si era emersi dallo stereotipo che voleva il “telefilm” come prodotto rivolto o a nerd incalliti o a casalinghe annoiate, i ragazzini erano entrati da anni nell’equazione rivendicando tematiche più complesse (anche se spesso trattate con imbranato sensazionalismo), il poliziesco aveva compiuto la sua evoluzione solidificando filoni narrativi più incentrati sul personaggio che non su una rigida struttura a caso della settimana. Soprattutto si erano moltiplicati gli spettatori, quindi i tipi di spettatore, quindi i temi, quindi la concorrenza, quindi la qualità: la tv, ha detto qualcuno, ha superato il cinema. Facile capirne il perché: c’è un abisso emotivo tra una storia che consumi in due ore e una storia che, potenzialmente, ti accompagna per anni della tua vita, raccontandoti nel dettaglio storie e personaggi e descrivendoti o suggerendoti risposte che un film ha appena il tempo di abbozzare. Se a queste potenzialità si associa la cura qualitativa, sceneggiature inattaccabili e budget all’altezza, è facile capire come lo spettatore – ma anche il barbosissimo critico – sia incline a promuovere senza riserve alcuni dei capolavori seriali degli ultimi anni, elevandoli al livello di un film da Oscar. Il fatto è che le cose stanno cambiando e ancora una volta, consapevolmente o meno, le stiamo cambiando noi. Il “lato domanda”, lo chiamerebbe qualche incallito uomo di marketing. A me piace definirci “utenti alfa”, quelli che non si limitano a fruire di un prodotto e a giudicarlo in quanto tale ma riflettono sulle modalità e la natura di questa fruizione, si formano un’opinione e la argomentano. Mentre la tv cerca di avvicinarsi a un’audience più consapevole, l’audience si allontana dalla tv: la diretta non ha più lo stesso valore, e guardare una serie in contemporanea è sopravvalutato. Anche il momento del commento sull’episodio appena visto non necessita più dell’immediatezza, in questo momento in cui tutto sembra richiedere come minimo il “subito dopo” e possibilmente il “durante”: il commento “in differita”, anche parecchio tempo dopo la visione, ha acquisito una sua dignità. E questo, associato a una cultura sempre più consapevole del concetto di spoiler e a una molteplicità di modi per fruire di contenuti on demand, ci sta portando verso il regno della differita per eccellenza, in cui ognuno guarda quando può ciò che vuole, ha spazi di commento pressoché infiniti, non si sente schiavo delle ripetute interruzioni pubblicitarie. Insomma, se già la crisi economica era arrivata in tv – tra budget bassi, minore propensione a osare sulle invenzioni narrative, ordini ridotti di episodi e cancellazioni repentine al primo inciampo – ora subentra una nuova crisi, quella del calo generale degli ascolti. Improvvisamente i dati del DVR, la registrazione digitale tanto comune negli Stati Uniti, non sono più puramente indicativi ma rappresentano, per i produttori, un dato importante: sempre meno persone, dall’altra parte dell’oceano, sprofondano nel divano e accendono la tv accettando passivamente ciò che passa loro davanti. È iniziato a settembre un anno di profondo cambiamento, di indecisione e incertezze: un anno che farà da premessa all’innovazione che verrà e che vedrà nascere una serialità sempre meno basata sul media e sempre più sullo spettatore. Ogni anno – con quella definizione di “anno” e “stagione” che raccontavo all’inizio – ho l’impressione che si debba concettualmente ricominciare da capo, ripensare ciò che c’è e che ci dovrebbe essere: i come, i cosa, i quando. Ma al di là di ciò che mi auguro per i prossimi sviluppi narrativi di The Good Wife, di Revenge, al di là della mia ansia per l’incerto futuro di Community, quando penso a una nuova partenza televisiva mi viene solo in mente quanto aspetto quel momento in cui si comincerà a sperimentare davvero e il formato, grazie anche alla flessibilità e molteplicità di mezzi e tempi di fruizione, si adatterà non ai palinsesti ma al contenuto, alla narrazione. Pensate a Sherlock, della BBC: tre episodi da 90 minuti a stagione, e non è forse una serie televisiva? Non si tratta di una narrazione estremamente orizzontale e capacissima di catturare lo spettatore nonostante la durata quasi cinematorgrafica? Sono un’ottimista: l’età dell’oro della tv ha subito una battuta d’arresto, ma solo per capire bene da che parte andare in un’evoluzione/rivoluzione scatenata che comincerà adesso, da quei dati che non tornano più per gli investitori e che costringerà i produttori a cercarci lungo nuove strade.