I prigionieri del tempo
Per il cinema la memoria è tutto. Ultima tra le arti, è troppo giovane per dimenticare la sua origine, che emerge dal passato come fonte costante di nutrimento dalla quale attingere.
Cosa succede quando questo cordone ombelicale viene reciso, e i rimandi e le contaminazioni tra linguaggi, forme, generi, non rappresentano più una possibilità di rinnovare il proprio immaginario, ma una ragnatela di tessere disordinate e disperse in un vuoto temporale tra passato e presente, in cui si rimane invischiati? In Killer Joe il cinema condivide con i suoi personaggi il trauma di una perdita. Dottie è perfettamente simmetrica nel suo sfasamento: relegata nella cameretta e fuori gioco nel presente, assente nel passato, tanto da doversi reinventare attraverso un ricordo artefatto. Il cowboy-killer texano Joe, relitto di un sogno “western” sepolto nella preistoria, è invece sproporzionato nella sua fisicità perfetta e sovrumana, e nelle sue vesti superomistiche tinte di un nero spersonalizzante, che lo rendono un emblema fuori contesto. Imprigionato in un presente che non gli appartiene, il mito – privato della frontiera e della sua originaria ragione d’essere – si fa messaggero di morte a pagamento, in cerca di una nuova dimora. La trova nella casa di un altro ideale americano, un nucleo familiare ormai putrefatto, ancor prima che venga ridotto letteralmente in pezzi. Come risolvere questa amnesia? Joe cerca l’incontro carnale con Dottie attraverso una messinscena psicoanalitica, in cui entrambi si fanno bambini chiudendo gli occhi, quasi a voler proteggere e rendere più semplice e istintiva quella sessualità che nel film viene invece costantemente esibita, fotografata, mimata. Poi distrugge simbolicamente un televisore, totem della casa e buco nero che risucchia il tempo quotidiano, rubando la capacità di sognare nel sonno o di immortalare i ricordi, sostituendoli con un fluire di frammenti sconnessi che ingombrano la mente umana. La reiterazione delle immagini va oltre lo schermo e investe la struttura filmica, che sembra ripiegarsi su se stessa con l’inserimento di schegge sempre uguali, i lampi violacei e il cane in catene, un Cerbero alle porte dell’inferno. Alla fine si resta in gabbia: il tempo gira attorno, e lo sbocco finale, con la reincarnazione di Joe nella dote portata in grembo, non è un atto liberatorio, ma il restauro di un circolo vizioso di violenza e morte, presagito dalla mano sul grilletto. Come Dottie si sente dire dal fratello davanti a un cartone animato, è una storia che finisce sempre allo stesso modo.
Killer Joe [id., USA 2011] REGIA William Friedkin.
CAST Matthew McConaughey, Emile Hirsch, Thomas Haden Church, Juno Temple.
SCENEGGIATURA Tracy Letts. FOTOGRAFIA Caleb Deschanel. MUSICHE Tyler Bates.
Drammatico/Noir, durata 103 minuti.