A PROPOSITO DI JACQUES AUDIARD…
Animali in gabbia
Malik ha diciannove anni e deve scontarne sei di prigione, un lasso di tempo che permette al ragazzo di passare da fragile pulcino a protetto di un mafioso corso, scoprendosi sempre più sveglio e doppiogiochista mentre instaura un rapporto di amore-odio con questo suo padrino, lo rifugge e ne ha bisogno al tempo stesso.
L’intero cinema di Jacques Audiard si compone di soggetti che necessitano di qualcun altro per sopravvivere a una vita fredda, cattiva nello schiacciarli fino a renderli bisognosi di un appoggio. Sono storie che si costruiscono materialmente sulle vite di personaggi che si incontrano, sul loro evolvere da una situazione di stallo verso un divenire formato dal modo in cui quest’ultimo viene affrontato da ciascuno. Se nel timido capolavoro Sulle mie labbra la protagonista vive in un limbo ovattato a causa della sua quasi totale sordità, e nel successivo Tutti i battiti del mio cuore la gabbia formata dalla mancata persecuzione dei propri sogni sembra non voler cedere mai, con Il Profeta si toccano le massime punte di significato. Il protagonista non si trova solamente imprigionato nella sua vita, anche fisicamente è sottomesso ad agire da dietro le sbarre, mentre resiste e assorbe ogni dettaglio di chi gli gravita intorno, pronto all’implosione finale che lo porterà a liberarsi e costruire il proprio impero di terrore e potenza. Attraverso il poetico accompagnamento delle puntuali musiche di Alexandre Desplat, firma inconfondibile in ogni singola pellicola del cineasta francese, lo schermo si riempie di immagini costruite con accurata intelligenza, grazie anche a uno studio approfondito della realtà carceraria. Ad essa si mescolano visioni surreali presenti nella mente di Malik, una sorta di coscienza manifestata, visivamente un piccolo colpo di genio capace di dare ulteriore profondità alla trama generale e pompare sangue nelle sue vene. È questo stesso liquido che spicca sulle generali tinte gelide, un effettivo fil rouge nella filmografia di Audiard, che cola dal viso, che scorre tra le dita, fino a trasformarsi in una pozza color amaranto durante l’iniziazione del giovane detenuto. Si tratta di un cinema che si può toccare, personaggi pieni di storia e di desiderio di raccontarsi senza la fretta della trascuratezza ma con l’intelligenza del saper attendere. Così si presenta anche Il Profeta, un polar ribaltato che prende le difese di chi è rinchiuso, realizzato minuto su minuto in un crescendo di tensione, sempre trattenuta per non essere sciupata, partendo da una banconota spiegazzata per poi ambire a grandi imprese.
Il profeta [Un prophète, Francia/Italia 2009], REGIA Jacques Audiard.
CAST Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Reda Kateb, Hichem Yacoubi.
SCENEGGIATURA Jacques Audiard e Thomas Bidegain. FOTOGRAFIA Stéphane Fontaine. MUSICHE Alexandre Desplat.
Drammatico, durata 150 minuti.