Allo specchio
Racconti di “vite che non sono la mia”. Narrazioni di eventi immaginati, solo in parte vissuti. Destini intrecciati nel segno dell’urgenza comunicativa, e del desiderio – umano, troppo umano – di voler conciliare limiti e aspirazioni.
Primo livello. A un reading letterario, il talentuoso romanziere Clay Hammond (Dennis Quaid, in gran forma) declama alcune pagine del suo nuovo best-seller dal titolo “The Words”. Secondo livello. Protagonista della storia raccontata da Clay è Rory Jansen, giovane scrittore dalle ardenti ambizioni al quale la sorte riserva un’atroce sorpresa: Rory, infatti, non ha talento. E’ un attimo: il sogno si incrina; le aspirazioni, da vivificanti, diventano macigni sul cuore. Ma la sorte ama i giochi di prestigio e non manca di un sottile senso dell’ironia. Fa a Rory un’offerta impossibile da rifiutare: il libro della vita trovato fortuitamente in una consumata valigetta ricevuta in regalo dall’adorata moglie Dora in quel di Parigi. Se la carta sa di vecchio, le parole risuonano di sentimenti sempre nuovi, universali; parole che Rory fa sue reprimendo gli scrupoli di coscienza e inebriandosi dell’esorbitante successo che ne deriva. Terzo livello. La sorte dà, la sorte toglie. Alla vicenda di Rory si lega quella del Vecchio, voce del passato in grado di ridestare la coscienza dormiente del furbo “artista”. Fu vero plagio? Certo che si. Perché il processo creativo è una fiamma che consuma dentro, origina dalla gioia e dalla sofferenza incontenibili che solo chi ha realmente vissuto può raccontare. Ma sarebbe sbagliato imbrigliare il film d’esordio degli sceneggiatori Klugman e Sternthal nei limiti ristretti della riflessione a tema. L’urgenza della rappresentazione muove da un’esigenza “estetica” che trova nello schema a scatole cinesi il suo senso ultimo e più compiuto. Clay che racconta Rory che ruba la storia di un Vecchio (un superbo Jeremy Irons) che narra di un Sé Giovane, è metafora dei corsi e ricorsi della vita, dell’intreccio insolvibile dei suoi rimandi, del suo procedere costante sul limite che separa la realtà dall’immaginazione. Tratti d’unione tra questi due stati dell’essere sono le parole: sussurrate, urlate, scritte, perse, mai dette, solo pensate. E se i piani filmici arrivano a intrecciarsi tanto da confondere le identità, non è per difetto di aderenza tematica o smania di rappresentazione. Pur non mancando le cadute di tensione e i passaggi a dir poco “improbabili”, The Words scava nel vincolo – virtuoso e vizioso – che unisce arte e vita e lo fa senza compiacimenti o (pre)giudizi di sorta. Lo fa lasciando “semplicemente” che di questo ossessivo corteggiamento affiori, nel cortocircuito di parole e immagini, la bruciante inafferrabilità del suo conturbante mistero.
The Words [id., USA 2012] di Brian Klugman e Lee Sternthal.
Con Bradley Cooper, Zoe Saldana, Dennis Quaid, Jeremy Irons.
Sceneggiatura di Brian Klugman e Lee Sternthal, fotografia di Antonio Calvache, musiche di Marcelo Zavros.
Drammatico, durata 97 minuti.