Quando Ken incontra il lattice
Con la fine degli anni ’90 sembrava tramontato quel modello di bellezza maschile che univa Ken ai Californian Dream Men, lasciando finalmente spazio a qualche barbetta incolta e, in alcuni casi, a tratti somatici quasi androgini (basti pensare a Robert Pattinson).
Poi arriva Steven Soderbergh che, in collaborazione con un Channing Tatum primadonna e produttore, compone un mosaico filmico con bellezze muscolose e virili che di androgino mantengono solo le sopracciglia e i gridolini negli spogliatoi dei loro spettacoli. Nel ventaglio di uomini offerti dalla pellicola ce n’è per tutti i gusti: da McConaughey, texano e navigato, a Pettyfer, principiante con i mutandoni, dall’ispanico investigatore Rodriguez al modello Tarzan di Nash. Il regista cerca di iconizzare quei corpi tipicamente americani, correlati da balli hip hop (sicuramente la performance più convincente è di Tatum, memore di Step Up), Timberland ai piedi, lineamenti ma soprattutto mandibole decisamente pronunciati. Nell’atmosfera da Village People che circonda le prestazioni degli spogliarellisti, ci sono un paio di deboli tentativi di accordare un minimo di autorialità al film, entrambi non molto convincenti: mettere il vestito-icona di Marilyn addosso a Tatum non lo rende più aggraziato ed elegante (così come fargli indossare un paio di occhiali e una cravatta non lo rende più professionale); la canzone alla chitarra di McConaughey, più che ricordare il corpo nudo di Robin Wright nascosto dietro lo strumento in Forrest Gump, lo fa rimpiangere. Passando in rassegna un po’ tutti gli stereotipi americani sull’having good time e sul binomio sesso/droga, la trama resta pressoché ignorata dal pubblico: le inquadrature esterne al locale fungono da intermezzo tra uno spogliarello e il primo piano del tanga successivo. I tipici “buddies” dai corpi scolpiti riempiono tutto lo schermo e l’intero impianto del film, quasi a volersi riaffermare come una quindicina di anni fa. Ma il film non può essere solo questo: il regista è Soderbergh, lo stesso di Erin Brockovich e del dittico Che, non può aver costruito un’opera affidandosi solamente a primi piani di lati b. Deve esserci qualcosa rimasto nascosto, un significato che la semiotica da spogliarello ha inghiottito. Resta da capire quale fosse l’obiettivo ultimo di quest’apologia al fitness e al fisico da lungomare: l’istinto trova lo scopo nella stimolazione della libido femminile (esattamente come nel film), ma il testosterone dilagante delle due ore di pellicola (due ore, senza motivo) risulta irritante, un po’ come l’odore di dopobarba e sudore tipico delle discoteche affollate. Sarebbe, insomma, auspicabile che il senso del film sia solo rimasto incastrato negli ingranaggi della produzione.
Magic Mike [id., USA 2012] di Steven Soderbergh.
Con Channing Tatum, Alex Pettyfer, Matthew McConaughey, Olivia Munn.
Sceneggiatura di Reid Carolin, fotografia di Peter Andrews (a.k.a. Steven Soderbergh).
Commedia drammatica, durata 110 minuti.