Controfigure aliene
All’uscita di ogni nuovo film di Ridley Scott è ormai consueto chiedersi se assisteremo a un’altra opera pronta a confermare il suo inesorabile declino (Hannibal, Le crociate, Un’ottima annata, Robin Hood) o, più raramente, a film che pur non essendo capolavori confermano il talento dell’autore britannico (Il gladiatore, American Gangster).
L’unica certezza è che Sir Scott non è più stato capace di raggiungere le vette dei suoi primi film, fino allo zenit toccato, nell’ormai lontano 1982, con il capolavoro Blade Runner. Tuttavia, inutile negarlo: su Prometheus le aspettative erano alte. Non poteva essere altrimenti per il ritorno di Scott a un genere ben conosciuto come la fantascienza e a un universo, quello di Alien, di cui è stato il creatore. Il risultato però è deludente e il confronto con il predecessore impietoso. Più che il prequel di Alien, Prometheus ne è, per certi versi, la copia contemporanea: una copia ovviamente aggiornata negli effetti visivi che consentono a Scott di confermare il sempre notevole gusto scenografico, ma che, pur distanziandosi molto dalle oscure atmosfere del predecessore, ne riproduce svolte narrative, la morfologia degli alieni, alcuni personaggi. L’esempio più evidente è la protagonista Elizabeth Shaw/Noomi Rapace, evidente controfigura della Ripley di Sigourney Weaver. Tutti gli attori si trovano imprigionati in personaggi senza spessore, fin troppo prevedibili e stereotipati: dal capitano dell’astronave, ironico e sornione, che al risveglio dall’ibernazione si fuma una canna (ah, ovviamente è nero), salvo poi rivelarsi un vero coraggioso; a improbabili scienziati (come Fifield) che sembra uscito da Trainspotting e che naturalmente sarà il primo a fare una bruttissima fine. Nota più positiva l’ambiguo androide David, cui dà corpo Michael Fassbender, personaggio che, seppure più sfaccettato, problematico e interessante dei suoi “colleghi” umani, non può certo salvare il film. Prometheus cade più fragorosamente proprio nei momenti che vorrebbero riflettere sui limiti dell’essere umano e della sua sete di conoscenza, e interrogarsi sull’origine della nostra esistenza e sul ruolo dei misteriosi Creatori che forse sono arrivati ad odiarci per quello che siamo diventati. Non ci sono risposte ma solo nuove domande in un film che, quando vuol farsi filosofico, scivola nella banalità e si fa presuntuoso. D’altronde, Malick insegna, la Grazia non è per tutti.