Globalizzazione. Due o tre cose che so di lei.
“Non si può avere una crescita infinita in un pianeta finito.” Verità lampante, soprattutto in tempi di crisi conclamata del sistema capitalistico e di scarto evidente tra risorse e consumo. Eppure non c’è governo che non si ostini a recitare il mantra della crescita economica e l’aumento del PIL – quindi di produzione e consumi – è l’obiettivo abitualmente perseguito.
Un interessante spaccato di questo paradosso lo offre L’economia della felicità, documentario del 2011 a cura di Helena Norberg–Hodge, Steven Gorelick e John Page. Tutti afferenti all’ISEC (International Society for Ecology & Culture), di cui Helena è fondatrice, i tre studiosi hanno illustrato le contraddizioni dell’economia globale in un’analisi che ha fatto il giro del mondo, per poi arrivare anche in Italia in rare proiezioni speciali e in DVD per la collana Satya. L’idea di fondo sostenuta dal film è che la globalizzazione, intesa come processo strettamente economico, abbia portato in pochi anni allo sviluppo accelerato di un sistema di affari e di produzione sorretto principalmente dalle multinazionali, con tutto quel che ne consegue non soltanto in termini economici e di impatto energetico e ambientale, ma anche a discapito dell’auspicata interculturalità. L’omologazione agli standard imposti dal capitalismo e dall’immaginario plasmato ad hoc per incentivare i consumi ha destabilizzato drasticamente realtà economiche e culturali impreparate alla transizione, operando al tempo stesso sensibili cambiamenti nella costruzione delle identità individuali. Attraverso l’osservazione diretta del popolo Ladakhi, in una regione dell’Himalaya, la regista constata gli effetti della trasformazione a partire dagli anni ’70 per poi estendere l’analisi ad un’ottica internazionale. All’impoverimento sistematico delle risorse per soddisfare una sovrapproduzione destinata ad un inevitabile collasso, gli autori oppongono la necessità di una decrescita incentrata sulla localizzazione. Il documentario raccoglie gli interventi di esperti nei diversi settori dell’economia, dell’ambiente o della cultura, concordi nel sostenere l’urgenza di un cambio di paradigma rispetto a un sistema economico ormai insostenibile sotto molteplici punti di vista. Il risultato risente dei vizi del film a tesi, articolato su opposizioni nette marcate dal montaggio di immagini evocative. La struttura è peraltro convenzionale, con le “Otto scomode verità sulla globalizzazione” introdotte da didascalie, mentre le interviste si alternano alla rapida successione del materiale girato nei diversi continenti. A renderne indispensabile la visione sono la rilevanza dei contenuti e un’ottica capace di cogliere l’interdipendenza tra scelte economiche, degrado ambientale e felicità personale. Un’analisi attualissima, comprensibile e, paradossalmente, davvero globale.