«Pray hardcore, pray super hardcore» suggeriscono le amichette del gruppo di preghiera a Selena Gomez, prima di lasciarla partire per le vacanze primaverili con un trio di compagne debosciate in Spring Breakers. Pregare fortissimo, pregare gridando come Isabelle Huppert in Bella addormentata, non basterà ad attirare l’attenzione di Dio sulle vicende delle piccole natural born killers in passamontagna rosa di Harmony Korine, né servirà a risvegliare la principessina bionda tenuta in vita da una macchina nel film di Bellocchio.
Nella Mostra che ha incoronato la Pietà di Kim Ki-duk, il filo rosso di un rosario disperato lega le opere di autori dalle cinematografie distanti anni luce tra loro e l’assenza di Dio risuona assordante, rinchiusa tra gli angusti confini dello schermo. Sotto la superficie della ferocia e della provocazione c’è un vuoto più grande: oltre, al di là del crocifisso diventato strumento di peccaminoso piacere in Paradies: Glaube; più a fondo della passione che distoglie la “suora” Alba Rohrwacher dalle barricate dove si strilla “agli assassini” di Eluana Englaro; più in profondità del velo di finzione che copre la genesi di Scientology nell’immenso The Master, è lì sotto che sta il vuoto da riempire. Fill the Void, recita il titolo della bella opera prima israeliana in cui la vincitrice della Coppa Volpi, come tanti altri protagonisti di questo 69° Concorso, invoca un Dio sordo e assente. Lo fa anche Javier Bardem, prete dal cuore svuotato nel fragile To the Wonder: il cinema ha perso la fede. Il vuoto permea la religione fittizia creata dal titanico Philip Seymour Hoffman in The Master, costeggia le immagini patinate di un Terrence Malick che ha smarrito la Grazia, nutre la gioventù sbruciacchiata di Spring Breakers. Dio è morto, gli ideali sono morti (Après Mai di Assayas e The Company You Keep di Redford, improbabili eppure perfette metà di un unico discorso, lo declamano con amara asciuttezza) e neppure noi ci sentiamo troppo bene. Non ci resta che la fede nel cinema: quello che ancora brucia lo schermo, lo invade di fiamme come nella bellissima sequenza di Après Mai in cui il Sessantotto, dopo essere entrato dalla finestra in The Dreamers, da un’altra finestra si butta trovando la morte. Così, più delle preghiere strillate e delle barricate pro vita, risuona nella Mostra veneziana un umanesimo incandescente e cupo: le sequenze in cui si squagliano l’eleganza kubrickiana di Paul Thomas Anderson e la simmetria gelida di Ulrich Seidl, per lasciare spazio al corpo a corpo. All’umanità, nuda e cruda, privata delle sue confortanti sovrastrutture, una massa di figurine stagliate sotto uno strappo nel cielo di carta. Personaggi rabbiosi come il Joaquin Phoenix di The Master, imperfetti, crudelmente umani, che lanciano dallo schermo una preghiera hardcore e profana: quella del cinema che riparte dall’uomo.