Speciale 69° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
VENEZIA CLASSICI
L’apparato digerente della società
“La società – ogni società – divora sia i figli disobbedienti che i figli né disobbedienti né obbedienti: i figli devono essere obbedienti e basta” (Pasolini). Dopo l’analisi della fragilità e del vuoto interiore della nuova borghesia italiana con Teorema, Pasolini guarda al sistema neocapitalistico e consumistico del ’68, definendolo un Porcile.
In un passato imprecisato, un eremita cannibale e i suoi seguaci vagano in cerca di viandanti di cui cibarsi; catturati a loro volta sono processati e condannati. Nella Germania degli anni Sessanta, un giovane di nobile famiglia cela a tutti la propria zooerastia, finché il suo segreto non diviene il motivo di un ricatto a danno del padre da parte di un concorrente industriale. Divorato dal suo stesso amore, del ragazzo non resta nulla, soffiato via dalla cinica intimazione dell’industriale a tacere dell’accaduto al genitore.
Le due vicende, narrate attraverso un montaggio parallelo, non sono che due facce della stessa medaglia, simboli, in passato come nel presente, di un opposizione solitaria ai dettami sociali. Pasolini, in pieno clima rivoluzionario, sostiene che la ribellione e la trasgressione fini a se stesse non servono: se alla base non vi è un atto cosciente e rivolto agli altri, tutto può esaurirsi nel gesto in sé e per questo essere perfettamente assimilabile e superabile. Così il cannibale che, al momento della condanna, professa la propria fede confessando il suo peccato, scintilla della sua ribellione – che annienta, divorando, ciò che combatte – contro la società, cannibalesca essa stessa, che punisce i figli disobbedienti, lasciandoli divorare da cani selvatici. Il giovane tedesco, invece, chiuso nel suo mistero, si isola dal mondo, facendosi inerte vittima del potere che lo vorrebbe integrare e che lui stesso rifiuta.
È proprio il potere – incarnato dai giudici-aguzzini e dell’industriale rivale – il secondo tema di Porcile. Un potere simbolo della società che rappresenta, sempre e comunque cinico e spietato, che non accetta opposizioni di alcun tipo, pena l’essere annientati. L’infinita capacità di fagocitare e digerire della collettività, diventa così pratica comune, segno di una falsa ricerca di benessere, volta esclusivamente al materialismo più edonistico.
L’umanesimo pasoliniano offre però una risposta alla tragicità della realtà, attraverso il personaggio di Maracchione, unico trait-d’union tra i due episodi. Questo contadino, testimone involontario degli eventi, capace di stupirsi e commuoversi per quello a cui assiste – grazie a una propria e ancora intatta purezza interiore – diventa così per il regista un “esempio di umile indipendenza”, segno della capacità di conservazione del senso del reale di quell’“uomo possibile” che Pasolini identifica ancora negli emarginati e, in particolare, nelle popolazioni terzomondiste, come già aveva espresso in Appunti per un film sull’India e ribadirà con maggior forza in Appunti per un’Orestiade africana.
Con Porcile Pasolini inaugura l’ultima fase della sua produzione, incentrata sulla ricerca sempre più disperata di un’umanità ancora intatta e non intaccata dalla mentalità consumistica. Una ricerca che lo porterà a un’indagine a ritroso nella purezza arcaica del passato (la Trilogia della vita) e a una critica sempre più aspra verso la società contemporanea (Scritti corsari, Lettere luterane), fino al rifiuto totale di questa e delle sue pratiche con Salò o le 120 giornate di Sodoma.