L’urlo spezzato
“Che cosa vuol dire reale? Dammi una definizione di reale…”. Nel porre un interrogativo che alla semplicità della forma affiancava l’irriducibile complessità del contenuto, il saggio Morfeo sapeva bene che per Neo, da quel momento in poi, nulla sarebbe più stato come prima. Ma al di là della spiegazione wachowskiana sulla natura del mondo che ci circonda, è la pregnanza ontologica della domanda a esercitare il fascino prepotente dell’ambiguità unita al dubbio: a questo fascino il cinema si concede nel tentativo – folle e bellissimo – di risolverne il mistero.
Fascino cui cede anche il regista norvegese Pål Sletaune, che però in Babycall – dopo l’intrigante Naboer – propone un viaggio negli anfratti oscuri della percezione sensoriale di dubbia coesione e originalità.
L’esistenza di Anna, madre separata, e di suo figlio Anders, restano sospese nelle forme abortite di un thriller indeciso se approdare sul campo minato della schizofrenia o su quello distruttivo dell’horror minimalista. In fuga da un marito/padre violento con tendenze omicide, Anna si rivela genitore iperprotettivo che nel tentativo di controllare il figlio anche durante la notte, decide di acquistare un babycall. Puntuale, il terrore si sintonizza sul segnale del congegno, e al respiro soffice e regolare dell’infanzia si sostituisce il grido agghiacciante della sofferenza e dell’abuso. Per la serie: “sento la gente morta…”. E non solo. Dimenticate però Shyamalan o Amenabar: nell’universo psicotico creato da Sletaune non c’è sentore del piacere inebriante proprio di un colpo di scena riuscito, né si ravvisa traccia alcuna della morbosità regale che costringe in una morsa di angoscia sempre più stringente la moglie e i figli degli “altri”. Abbondano, invece, prevedibilità e scorciatoie narrative, in un girotondo di parallelismi e contrapposizioni che dimentica per strada il legame fertile tra i vari componenti e arriva ad implodere penosamente su se stesso.
C’è sicuramente del marcio (anche) in Norvegia ma Noomi Rapace era stata molto più brava a farcelo capire con la determinazione disperata della sua Lisbeth Salander. Con la Anna di Babycall non va oltre l’isteria del gesto ed esaspera a tal punto l’amore malsano per il piccolo Anders da risultare irritante. Non c’è nulla di più triste (e fastidioso) delle buone partenze che si incagliano lungo il cammino perdendo di vista l’obiettivo da raggiungere. Il film di Sletaune è il classico “promettente sulla carta, deludente sullo schermo”: simile a un urlo spezzato che è stato privato sul nascere della sua carica dirompente e, per sopravvivere, si è trasformato in sibilo, perdendo, così, di forza e incisività.