I tempi (non) cambiano
Rocco Mortelliti torna dietro la macchina da presa dopo più di dieci anni da La strategia della maschera con un nuovo adattamento da un altro romanzo omonimo di Andrea Camilleri, qui anche co-sceneggiatore assieme al regista e a Maurizio Nichetti.
Il libro deve molto a A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia, di cui non solo riporta una citazione in apertura, ma ne riprende la struttura e il messaggio di fondo. Come nel testo di riferimento, anche qui l’investigazione – sulla misteriosa sparizione dell’impeccabile ragioniere Patò durante la rappresentazione del Venerdì Santo – diventa il pretesto per un’analisi dell’ambiente siciliano e dei mali che ne limitano l’affermarsi di una democratica e civile dimensione statale. Primo tra tutti questi è l’omertà, oggi come nel 1890, anno d’ambientazione del romanzo di Camilleri, humus ideale per lo sviluppo delle logiche mafiose. A sottolineare quanto detto, l’ambientazione nell’immaginaria Vigata, scenario delle indagini del contemporaneo Commissario Montalbano, altro felice frutto della fantasia dell’autore, viene così a esprimere un legame col passato che rimanda a quello espresso dal conterraneo Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo Il gattopardo: tutto deve cambiare, perché nulla cambi. Ma La scomparsa di Patò rintraccia le radici di questo male ben oltre la Sicilia, al centro di un’Italia da poco unificata, nel suo governo e istituzioni che, visti i risultati dell’inchiesta, preferiscono insabbiarla piuttosto che rilevare la verità al Senatore Pecoraro, zio di Patò, evitando così il discredito del politico. L’attualità bussa alla porta. I punti di forza del romanzo si fanno però i limiti del film – presentato al Festival Internazionale del Cinema di Roma del 2010 e uscito in sala solo a febbraio di quest’anno – che ne risulta in definitiva una sterile trasposizione, priva di un tocco personale che lo differenzi dal testo di riferimento. Come in uno sceneggiato televisivo, tutto è semplificato in funzione di una fruizione totalmente passiva. Il film non devia dal tracciato originale, non azzarda nuovi percorsi sfruttando le proprie potenzialità (l’ottima ricostruzione, alcuni attori tra cui un Flavio Bucci tenuto purtroppo in sordina o il ben amalgamato gruppo di sceneggiatori), preferendo percorrere pedissequamente – seppur con qualche taglio – i binari narrativi preposti. Mortelliti (s)cade così nel film-tv, forse tentato dalla fagocitante presenza di Camilleri, i cui romanzi e relativi adattamenti sono ormai da anni fonti di sicuri successi per editori e RaiFiction. Caratterizzato da una recitazione alquanto discutibile di attori ripescati da serie sui generis nostrane (Nino Frassica, Maurizio Casagrande) e la solita maschera sorniona di Neri Marcorè, il film – riprendendo la classica struttura del buddy movie – si fa ennesimo siparietto ideale per scenette da italietta popolare e popolana adatte al pubblico del prime-time familiare, con tanto di tradizionale diatriba tra carabiniere e poliziotto (elemento peraltro già più che abusato dall’autore del romanzo) e lettera dettata “alla Totò e Peppino”. Un prodotto medio il cui risultato più che convincere stanca. Virtus in medio non stat.