Mercoledì 22 agosto, La7D, ore 21.10
Io credo nella felicità
“In un paese dove tutti sono cattolici ma odiano i preti, a me che non credo i preti stanno simpatici”: così Nanni Moretti a riguardo de La Messa è finita, uno dei suoi film ingiustamente meno celebri ai più.
Protagonista è Don Giulio, giovane prete che torna a Roma, suo luogo natale, e trova una situazione disperata dove dominano solitudine, volgarità, smarrimento e mancanza di prospettive. Il giovane Don si scopre presto inadeguato, insofferente e incapace di risolvere le situazioni e le problematiche delle sue pecorelle smarrite. L’abito religioso, a cui tutti si rivolgono come se tra le sue pieghe si nascondesse la panacea di ogni male, non può conferirgli una maggiore forza, né impedirgli di essere totalmente umano, debolezze, idiosincrasie e odi compresi. Don Giulio non riesce ad aiutare parenti e amici a fuggire dalla loro rincorsa verso l’infelicità, apparendo quasi come un Don Chisciotte a cui non resta che rifugiarsi nella musica leggera italiana, immaginando le note di “Ritornerai” di Bruno Lauzi riempire l’aria e spingere tutti ad ballare un walzer riconciliatorio. “Solitudine” e “infelicità” sono le due parole chiave, rappresentando i due obiettivi contro cui il cinema di Nanni Moretti ha sempre lottato. Il cinema di Moretti non è pessimista nel senso per cui le cose vanno male secondo un’intrinseca legge di natura per cui è impossibile che vadano bene, ma nell’ottica in cui la felicità sarebbe dietro l’angolo se i personaggi non facessero di tutto per sfuggirle. Le nevrosi e le ossessioni dei suoi protagonisti sono causate anche dalla constatazione dell’autodistruzione attuata da chi gli sta intorno, e dalla presa di coscienza di essere del tutto impotenti; emblematico di questo è il precedente Bianca, ma anche Don Giulio si ritrova in una condizione simile a quella che ha spinto Michelle Apicella ad improvvisarsi serial killer. La sua condizione è resa più pesante dall’essere prete, punto di riferimento della comunità ancora in quegli anni nonostante la galoppante laicizzazione e perciò schermo che attira le insicurezze e l’infelicità di tutti. Al prete si chiede di testimoniare in tribunale, si chiede consiglio su che libro regalare ad una bambina: da un lato lo si vuole rendere partecipe di ogni cosa, dall’altro gli si impedisce di potere aiutare veramente, esigendo da lui solo assoluta comprensione e assoluzione. Don Giulio, come già scritto su queste pagine, è il cardinale Melville di Habemus Papam ad inizio carriera: entrambi schiacciati dal peso di responsabilità che non riescono a prendere e di compiti che sanno di non potere portare a termine. La messa è finita è forse il risultato più robusto e coerente dell’itinerario di Moretti, ed è anche quello in cui meglio convivono i topoi e le fissazioni ricorrenti nel suo cinema con la realtà sociale del paese: i dolci, lo sport, le nevrosi, l’egocentrismo, le canzoni italiane accompagnano infatti il riflusso, il senso di fallimento della generazione politicamente impegnata degli anni Settanta, la volgarità e l’edonismo dominanti negli anni Ottanta, la crisi della famiglia e in generale dei valori tradizionali. La messa è finita, ma, nonostante Bruno Lauzi, nessuno probabilmente vorrà cogliere l’opportunità di andare in pace.