In profondità?
Complesso valutare Dream House, pellicola allontanata sia dal suo regista (Jim Sheridan) che dagli intepreti principali, e che, nella sua versione finale fortemente rielaborata dalla casa produttiva, risulta essere di una debolezza narrativa disarmante.
E’ chiaro come alla base del progetto siano stati ripresi riferimenti fin troppo noti nell’ambito cinematografico che di certo non aiutano a rendere il film meno prevedibile. Quello della poca originalità, nonostante tutto, rappresenta un difetto minore rispetto alla vuotezza del soggetto: quest’ultimo infatti mostra di basarsi realmente solamente sulla riproposizione di figure e modelli ormai abusati, pensando che essi bastino a dare senso e spessore psicologico alla vicenda. Nemmeno la campagna pubblicitaria ha aiutato la pellicola, vanificando, con la realizzazione di un trailer senza logica, la svolta centrale del racconto, rendendo vana la costruzione tensiva della prima parte e di conseguenza svuotandone anche la seconda.
Perché quindi questa pellicola è difficile da valutare quando i difetti sono oggettivamente riscontrabili, come anche la costruzione di personaggi realmente stilizzati e la giunzione tra mondo immaginario e reale difficilmente giustificabile? Dream House rappresenta infatti, come detto in apertura, una pellicola disconosciuta dalle sue personalità più importanti. In qualche modo rimane senza autore e la presenza di un nome noto come Jim Sheridan di sicuro porta ad aspettative di un certo tipo. Se poi questo si discosta dal progetto, come va valutato quest’ultimo?
Una via potrebbe essere quella di ricercare nelle pieghe gli aspetti interessanti, tentando di vedere un probabile sviluppo discorsivo più approfondito, lasciato appena delineato, comunque una forzatura necessaria per riuscire a trovare linee guida nel discorso di un autore; in Dream House il rapporto tra spazio mentale e reale confinato a luogo abitativo, seppur non originalissimo, se approfondito e non abbandonato a diventare semplice titolo della pellicola, avrebbe potuto donare una maggiore profondità al tutto.
E’ chiaro di come alla base, questo, sia un discorso più interessante per chi cerca d’interpretare il film più che allo spettatore (differenza purtroppo sempre più marcata nel pubblico di oggi) ma che in realtà si ripercuote soprattutto su come il giudizio critico si sposta non più sul singolo film ma su un’intera cinematografia nazionale, ad esempio, dove il dilemma se dover giudicare crudamente ciò che viene realizzato, oppure vedere non solo tra le pieghe ma anche tra ciò che non arriva sul grande schermo così da ricavare le intenzioni d’autore nonostante gli impedimenti produttivi-distributivi.
Problemi che non sono per nulla secondari all’interno di una cinematografia ma che, al contrario, sono alla base dell’incomprensione esistente tra chi crea e chi li giudica, e l’assenza di dialogo, che si è venuta a creare, è prima di tutto sintomo di un’indifferenza nata tra le due categorie e che sempre di più si tende a sottovalutare ma che potrebbe essere una delle cause di una crisi ancora incontrovertita.