Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica, Gorizia, 19-28 luglio 2012
Uomini soli
Coraggioso. Ecco come definire un film come Yol (La strada), realizzato dal regista Yilmaz Guney mentre si trovava in carcere.
L’autore turco condannato a più di cento anni di reclusione per delitti di opinione, con accuse di comunismo e associazionismo anarchico, scrisse dietro le sbarre la sceneggiatura, affidandola poi al collaboratore Serif Goren che si occupò delle riprese. Guney, dopo una rocambolesca evasione, riuscirà a montare personalmente il girato una volta espatriato in Svizzera. Yol è un film al quale si perdona qualche momento prolisso e qualche passaggio a vuoto, poiché rimane prima di tutto la straordinaria testimonianza di un’incrollabile volontà artistica che sarà giustamente premiata al Festival di Cannes del 1982 con la Palma d’oro per il miglior film.
Se la narrazione segue le vicende di cinque carcerati, liberi su licenza, che tornano verso le rispettive famiglie, l’obiettivo di Guney è raccontare attraverso i suoi personaggi la condizione disperata che accomuna allo stesso tempo il singolo uomo e il paese in cui vive. La Turchia ci viene mostrata come un luogo dominato da violenza e paura: fomentate entrambe dalla presenza incombente dei militari, si nutrono però di una religione opprimente e crudele nella sua ipocrita e ferrea applicazione. A uomini soli e sconfitti, liberi solo in una breve pausa dalla dura vita carceraria, questo scenario non lascia alcuna possibilità di riscatto o redenzione al di fuori del momentaneo ricongiungimento con i propri cari. E tuttavia nemmeno questa gioia estemporanea verrà loro concessa. La provvisoria libertà non fa che rigettarli nell’inferno delle loro vite precedenti e dovranno fare i conti chi con la guerra, chi con il senso di colpa, chi con la fuga della moglie. Lo sguardo del regista è spietato e pessimista, mai però distaccato: nei momenti in cui il climax drammatico tocca il suo apice, ecco che inquadrature e montaggio, debitrici di Sergio Leone, ci permettono di scrutare negli occhi dei personaggi, di cogliere nei volti ogni sfumatura espressiva. Si avverte il fascino magnetico e malinconico degli sconfitti. Non c’è possibilità di riscatto all’orizzonte di esistenze ormai perse. Rimangono l’ineluttabile rassegnazione – “com’è strana la vita” – di chi sa di avere il destino segnato e l’amara consapevolezza – “è successo e basta” – di chi si prepara ad affrontare il ritorno in carcere. Solo il curdo Omer, in cui è inevitabile rivedere Guney stesso, sceglierà la difficile via della lotta fuggendo tra le montagne con altri partigiani: determinato a combattere gli oppressori, sarà artefice del suo destino. Se morirà, almeno morirà libero.