Pubblichiamo, come partner del concorso di critica cinematografica – “Genere: femminile“, la recensione del film Sister di Silvana Tabarroni, che ha vinto il concorso.
Sister
Come spesso succede, il titolo originale L’enfant d’en haut, secondo film di Ursula Meier, è molto più efficace di quello con cui è stato distribuito in Italia, Sister, al fine di rispecchiare la condizione esistenziale del dodicenne Simon, principale protagonista. Nulla è detto del suo precedente vissuto famigliare, tranne quello che lui stesso ama inventare su di sè, ma si intuisce comunque un percorso negativo che gli ha impedito di acquisire la sicurezza necessaria per stare, alla pari degli altri, sulla scena della vita.
Simon, di fatto , quella sicurezza la esibisce, sia procurandosi il denaro necessario a condurre una vita comoda, per mezzo di furtarelli ed espedienti, sia adottando un comportamento “da grande” verso chi ha intorno, compresa Louise, unico adulto che gli è rimasto della sua famiglia.
Una lussuosa stazione di sci, frequentata da persone con un alto standard di vita e della condizione sociale cui Simon ambirebbe elevarsi, è teatro delle sue quotidiane e poco lecite attività, per mezzo delle quali cerca di affrancarsi da un destino che lo costringe nel basso della scala sociale; lui, il ragazzo “d’en haut” del titolo, mette in atto abili strategie per sottrarre alle ricche persone in vacanza oggetti di valore, attrezzature e costosi accessori di abbigliamento, per poi rivenderli, magari al ribasso.
Simon si è quindi costruito, anche in modo illecito, una sua identità da esibire in quel mondo patinato e un’apparente superiorità da imporre a Louise, con la quale convive nel fondovalle popolare, realtà a bassa quota che lui rifiuta come propria e dalla quale si allontana ogni giorno, salendo con la funivia alla stazione di sci.
Louise, da sempre instabile sia dal lato lavorativo che affettivo, subisce la tirannia del piccolo despota che non accetta di cadere nella spirale di impotenza alla quale lei pare essersi rassegnata. Il rapporto tra i due è improntato all’ambiguità e dominato dall’oscuro fascino del denaro, tanto che sembrano aver introiettato la convinzione che è normale mercanteggiare anche sui reciproci sentimenti.
È di nuovo una problematica famigliare, intricata e dolorosa, il tema con cui si cimenta la Meier, che già si distinse a Cannes nel 2008 con il primo lungometraggio Home. In L’enfant d’en haut/Sister, Orso d’Argento Speciale alla Berlinale 2012, la Meier adotta uno stile asciutto ed efficace che ricorda quello del F.lli Dardenne del film “Il ragazzo con la bicicletta” per l’analogo dilemma della crescita di un ragazzino problematico alla ricerca del padre, che sembra però evolversi positivamente verso una giusta direzione di maturazione, grazie all’incontro che il ragazzo ha con una figura femminile equilibrata e gratificante.
Per Simon, invece, appare lontana la possibilità di elaborare il proprio disagio a partire dalla necessaria consapevolezza dei propri bisogni, di contenimento, innanzitutto, come viene poeticamente espresso nella scena in cui si sdraia accanto a Louise, facendosi bambino ancora più piccolo di quello che è, disposto ad abbassarsi a chiedere affetto, magari a pagamento.
È quasi l’unico episodio in cui si rivela una relazione autentica tra il sè-bambino di Simon e la donna adulta di riferimento, per quanto carente e inadeguata.
Un esito favorevole di emancipazione e maturazione, sia di Simon che di Louise, potrebbe aversi solo dopo un lungo e faticoso percorso di presa di coscienza, senza alternative possibili.
Silvana Tabarroni