(Far) ridere per non morire
Hitoshi Matsumoto avvia la sua attività cinematografica nel 2007 con Big Man Japan, proseguendola parallelamente a quella ormai trentennale di comico televisivo nel duo Downtown e a quella di scrittore. Questa terza pellicola – girata nel 2010 e circolata finora solo in Giappone e Francia, al di fuori di importanti festival cinematografici tra cui Locarno, Hong Kong e Lione – segna una delle tappe più significativa di questo talentuoso autore purtroppo ancora poco noto al di fuori dal contesto nazionale.
Kanjuro Nomi è un samurai fallito. Persa la moglie e la spada, diserta e si dà alla fuga con la figlioletta. Catturato, è sottoposto alla prova “dei trenta giorni”: far ridere almeno una volta in quest’arco di tempo il figlio del suo signore che ha perduto il sorriso dopo la morte della madre. Riuscendo nell’impresa l’uomo avrebbe salva la vita, fallendo invece sarebbe obbligato a compiere seppuku.
Mischiando jidaigeki e commedia, Matsumoto realizza un’opera forse non di particolare originalità, ma sicuramente di grande presa sul pubblico. Guardando a L’estate di Kikujiro, il film deve molto al cinema e al personaggio del ben più noto Kitano, di cui il regista si dimostra discepolo/rivale sin dai primi lavori televisivi. Per entrambi la commistione di generi diversi è pensata in funzione di una risata amara – basata su una comicità fisica e mimica – che renda lo spettatore maggiormente disposto a una riflessione sul senso del film. Come il protagonista kitaniano, anche Kanjuro fa “coppia” con un bambino che deve divertire, ma se per il primo la risata è uno strumento per mascherare e allontanare dagli occhi del piccolo la dolorosa realtà, per Matsumoto diventa una vera e propria via di salvezza, uno strumento di liberazione personale e altrui, che permette di risollevarsi dal dolore e ricominciare a vivere. Una filosofia che però il regista lascia liberi di accettare o meno, in un finale inatteso che dimostra la maturità dell’autore, non desideroso di indicare “la” ma “una” strada, un modo di rispondere e reagire alle avversità. In quest’ottica, tutto il film si fa metafora della vita stessa: la fuga iniziale come rifiuto della situazione presente, la cattura come impossibilità di scampo e la prova come necessità di affrontare i momenti anche più duri e dolorosi nel tentativo di superarli. Come sosteneva Chaplin, “la tragedia è la vita in primi piani; la commedia è la vita in campi totali”. Pare lo stesso messaggio di Matsumoto: un invito a guardare l’infelicità del presente con uno sguardo più profondo, più ampio e proiettato verso il futuro, che abbia sì il rispetto del momento doloroso, ma anche la consapevolezza della necessità di non chiudersi in se stessi, ma di aprirsi al mondo circostante, fonte di stimoli e di reazioni spontanee e vitali. È in fondo questo l’insegnamento che Kanjuro – dolente quanto poetica figura chapliniana – dà alla figlia, con la sua promessa finale, parola speranzosa per un tempo a venire ovviamente imprevedibile, ma di certo sopportabile perché basato su una reattività e una tenacia (ri)scoperta da entrambi.
“[…] essere vivo/ richiede uno sforzo di gran lunga maggiore dal semplice fatto di/ respirare.” (Pablo Neruda).